Gabbiani

e82ab129b9041b21ce00294e92b3fc19.gifIncontro la notizia sull’articolo di un settimanale uscito il 14 luglio del 2006. La leggo. Mi colpisce. La rileggo più volte. Pare una favola. Invece è vera. Mi piace e la cosa non finisce lì, semplicemente chiudendo la rivista. È la storia di un piccolo gabbiano, un gabbianello di nome Gareth. Siamo in Inghilterra, la parte sud occidentale, in una cittadina del Devon. Qua un po’ di tempo fa Gareth, quando aveva un solo giorno di vita, è caduto dal suo nido, distrutto da una squadra di controllo ambientale dopo alcune lamentele sulla presenza della famiglia di gabbiani nella zona. Il piccolo è finito in una fattoria, ospite di un allevamento di galline e di paperi da cui ha ricevuto il suo imprinting imparando fin dai primissimi giorni di vita a comportarsi come loro. Gareth adesso ha due amici pennuti, il papero Clarke e la gallina Willie dai quali non si stacca mai tranne quando prende lezioni di volo dalla quindicenne figlia dei proprietari dell’allevamento, Katrina, una ragazzina esperta e tenace che gli insegna a volare per un’ora al giorno. Sì perché Gareth si comporta come i paperi e le galline e crede di essere uno di loro, dunque volare non rientra nelle sue attività e nei suoi piani. Crescendo con amici così diversi da lui non ha sviluppato nemmeno altri comportamenti tipici della sua specie. Infatti i gabbiani sono in genere piuttosto aggressivi fin da quando vivono nel nido e i più forti aggrediscono i fratelli più deboli per avere più cibo. In seguito tendono ad attaccare anche gli altri uccelli e in maniera particolare i piccoli di anatra. Sono molto opportunisti per quanto riguarda il cibo che riescono a procurarsi praticamente ovunque sia disponibile. Siamo abituati a immaginarli sul mare, dove più spesso possiamo ammirarli, ma si adattano anche a vivere in altri ambienti, per esempio in campagna o nei pressi di una discarica. Basta che ci sia cibo disponibile e non mangiano solo pesce perché sono onnivori.

5e3c99ca50b5f891c50a78f747a40eea.gifGareth non è aggressivo con gli altri pennuti e nemmeno con i più piccoli, e non vola perché non ha mai visto volare i suoi amici. E poi non ha bisogno di volare visto che non deve andare a cercarsi il cibo. Nella fattoria ce n’è in abbondanza e Gareth mangia ogni giorno senza dover faticare per nutrirsi. Spesso agita le ali perché lo vede fare dagli altri pennuti, ma non prova mai a spiccare il volo. Katrina si è messa in testa di insegnargli a volare, ma Gareth ha paura, anzi, dice Katrina che «è terrorizzato dall’altezza. Quando lo metto sul tetto del pollaio perché si involi urla e strepita finché non lo tiro giù. Ho provato allora a incoraggiarlo a fare qualche voletto sull’aia, ma al massimo svolazza per un paio di metri, poi torna a terra subito e se per caso atterra su qualcosa che sia a più di un metro dal suolo urla fino a quando non vado a soccorrerlo. Più o meno come farebbe una gallina, suo modello di riferimento».

La lettura di questa singolare storia ha fatto decollare il mio pensiero e ho immaginato che sarebbe fantastico poter convincere Gareth a vincere la paura e a farsi affascinare dal volo in una maniera un po’ insolita, un po’ impossibile per la verità,. ma volare con la fantasia non costa nulla e possiamo farlo. L’idea sarebbe di fargli leggere un paio di libri sull’argomento… ma sì, chissà cosa penserebbe leggendo il famoso racconto di Luis Sepúlveda intitolato Storia di una Gabbianella e del Gatto che le insegnò a volare. Nella storia una gabbiana, che ha le piume color argento proprio come Gareth, mentre si tuffa nel mare del Nord per cibarsi di aringhe, viene travolta da una macchia di petrolio. Riesce a fatica a spiccare il suo ultimo volo verso terra per finirlo atterrando, anzi sarebbe meglio dire cadendo, vicino a Zorba, un gatto del porto. Mentre sta morendo riesce a deporre un uovo e a farsi promettere dal nero micione che non solo non mangerà l’uovo, ma che se ne prenderà cura finché non nascerà il piccolo e che poi gli insegnerà a volare. Zorba la crede pazza, ma promette. Nasce Fortunata, una piccola gabbianella che scambia il gatto per la sua mamma. Si crede di essere un gatto, vive e cresce fra i suoi amici gatti del porto, ma lei è una gabbiana e Zorba ha promesso di insegnarle a volare perché quello è il suo destino, la sua grande opportunità, dunque lei volerà. Servirà l’aiuto di altri amici, come quello di Segretario, un gatto romano al servizio di Colonnello che è un’autorità fra i gatti del porto, colui che ha sempre il consiglio giusto da dare, poi di Sopravento, un gatto di mare che vive su una draga, e di Diderot, un gatto “enciclopedico” perché consulta sempre l’enciclopedia per sapere cosa c’è da fare in ogni occasione. Così Zorba e gli altri iniziano la non facile impresa di mantenere la promessa.

Leggere ciò che segue per Gareth sarebbe molto istruttivo: «“Il volo consiste nello spingere l’aria indietro e in basso. Ottimo! Sappiamo già qualcosa di importante” sussurrava Diderot con il naso infilato fra le pagine. “E perché devo volare?” strideva Fortunata con le ali ben strette al corpo. “Perché sei una gabbiana e i gabbiani volano” rispondeva Diderot. “Mi sembra terribile, terribile! che tu non lo sappia”. “Ma io non voglio volare. Non voglio nemmeno essere un gabbiano” replicava Fortunata. “Voglio essere un gatto e i gatti non volano” […] “Sei una gabbiana […] Ti vogliamo tutti bene, Fortunata. E ti vogliamo bene perché sei una gabbiana, una bella gabbiana. Non ti abbiamo contraddetto quando ti abbiamo sentito stridere che eri un gatto, perché ci lusinga che tu voglia essere come noi, ma sei diversa e ci piace che tu sia diversa. Non abbiamo potuto aiutare tua madre, ma te sì. Ti abbiamo protetta fin da quando sei uscita dall’uovo. Ti abbiamo dato tutto il nostro affetto senza alcuna intenzione di fare di te un gatto. Ti vogliamo gabbiana. Sentiamo che anche tu ci vuoi bene, che siamo tuoi amici, la tua famiglia, ed è bene tu sappia che con te abbiamo imparato qualcosa che ci riempie di orgoglio: abbiamo imparato ad apprezzare, a rispettare e ad amare un essere diverso. È molto facile accettare e amare chi è uguale a noi, ma con qualcuno che è diverso è molto difficile, e tu ci hai aiutato a farlo. Sei una gabbiana e devi seguire il tuo destino di gabbiana. Devi volare. Quando ci riuscirai, Fortunata, ti assicuro che sarai felice, e allora i tuoi sentimenti verso di noi e i nostri verso di te saranno più intensi e più belli, perché sarà l’affetto tra esseri completamente diversi”. “Volare mi fa paura” stridette Fortunata alzandosi. “Quando succederà, io sarò accanto a te” miagolò Zorba leccandole la testa. “L’ho promesso a tua madre” […] “Prima di iniziare rivediamo per l’ultima volta gli aspetti tecnici” miagolò Diderot. Dalla cima di una libreria Colonnello, Segretario, Zorba e Sopravento osservavano attentamente quello che accadeva in basso. Giù c’erano Fortunata, in piedi in fondo a un corridoio che avevano denominato pista di decollo, e Diderot, chino all’altro capo del corridoio sul dodicesimo volume, corrispondente alla lettera L, dell’enciclopedia. Il libro era aperto su una delle pagine dedicate a Leonardo da Vinci, dove si vedeva un curioso aggeggio battezzato ‘macchina per volare’ dal grande maestro italiano. “Per favore, prima di tutto controlliamo la stabilità dei punti d’appoggio a e b” ordinò Diderot. “Prova punti d’appoggio a e b” ripeté Fortunata saltando prima sulla zampa sinistra e poi sulla destra. “Perfetto. Ora controlleremo l’estensione dei punti c e d” miagolò Diderot, che si sentiva importante come un ingegnere della nasa. “Prova estensione punti c e d” obbedì Fortunata spiegando entrambe le ali. “Perfetto! Ripetiamo tutto daccapo” ordinò Diderot. “Per i baffi del rombo! Falla volare una buona volta!” esclamò Sopravento. “Le ricordo che sono il responsabile tecnico di volo!” ribatté Diderot. “Tutto deve essere adeguatamente controllato, altrimenti le conseguenze potrebbero essere terribili per Fortunata. Terribili!”. “Ha ragione. Lui sa quello che fa” commentò Segretario. […] Fortunata era lì, in procinto di tentare il suo primo volo, perché durante l’ultima settimana si erano verificati due episodi grazie ai quali i gatti avevano capito che la gabbiana voleva volare, anche se nascondeva molto bene il suo desiderio».

La gabbianella infatti un pomeriggio aveva ammirato dei gabbiani bellissimi che volavano elegantemente in cielo e senza accorgersene stava spiegando le ali. Poi un altro giorno Sopravento stava raccontando una delle sue storie di mare e parlando di uno stormo di gabbiani disse «Non c’è uccello che sappia volare meglio di un gabbiano» mentre Fortunata «lo ascoltava con gli occhi spalancati».

Ma torniamo a leggere del primo volo della gabbianella: «“Vuoi volare, signorina?” indagò Zorba. Fortunata li guardò a uno a uno prima di rispondere. “Sì. Per favore, insegnatemi a volare” […] Attendevano quel momento da molto tempo. Con tutta la pazienza che contraddistingue i gatti, avevano aspettato che la gabbianella comunicasse loro il suo desiderio di volare, perché grazie a un’ancestrale saggezza capivano che volare è una decisione molto personale. E il più felice di tutti era Diderot, che ormai aveva trovato i fondamenti del volo nel dodicesimo volume,  lettera L, dell’enciclopedia, e che perciò si era assunto l’incarico di dirigere le operazioni. “Pronta al decollo!” miagolò Diderot. “Pronta al decollo!” annunciò Fortunata. “Inizi a rollare sulla pista spingendo indietro il suolo con i punti di appoggio a e b” ordinò Diderot. Fortunata venne avanti, ma lentamente, come se avanzasse su pattini male oliati. “Maggiore velocità!” reclamò Diderot. La giovane gabbiana accelerò un po’. “Ora allunghi i punti c e d!” istruì Diderot. Fortunata spiegò le ali mentre avanzava. “Ora sollevi il punto e !” comandò Diderot. Fortunata alzò le piume della coda. “E ora muova dall’alto in basso i punti c e d spingendo l’aria verso terra, e contemporaneamente ritiri i punti a e b!” spiegò Diderot. Fortunata batté le ali, ritrasse le zampe, si innalzò di un paio di centimetri, e subito ricadde come un sacco di patate. Con un balzo i gatti scesero dalla libreria e corsero da lei. La trovarono con gli occhi pieni di lacrime. “Sono una buona a nulla! Sono una buona a nulla!” ripeteva sconsolata. “Non si vola mai al primo tentativo, ma ci riuscirai. Te lo prometto” miagolò Zorba leccandole la testa. Diderot cercava di trovare l’errore guardando e riguardando la macchina del volo di Leonardo. Fortunata tentò di spiccare il volo diciassette volte, e per diciassette volte finì a terra dopo essere riuscita a innalzarsi solo di pochi centimetri. Diderot, più magro del solito, si era strappato i baffi a uno a uno dopo i primi dodici fallimenti, e con tremanti miagolii cercava di scusarsi. “Non capisco. Ho esaminato la teoria del volo con grande cura, ho messo a confronto le istruzioni di Leonardo con tutto quello che è riportato nella parte dedicata all’aerodinamica, volume primo, lettera A, dell’enciclopedia, eppure non ci siamo riusciti. È terribile! Terribile!” […] Dopo l’ultimo insuccesso, Colonnello decise di sospendere gli esperimenti, perché la sua esperienza gli diceva che la gabbianella iniziava a perdere fiducia in se stessa, e questo era molto pericoloso se davvero voleva volare. “Forse non può farcela” dichiarò Segretario. “Forse ha vissuto troppo tempo con noi e ha perso la capacità di volare”. “Se si seguono le istruzioni tecniche e si rispettano le leggi dell’aerodinamica, volare è possibile. Non dimenticate che è tutto scritto nell’enciclopedia” ribatté Diderot. “Per la coda della razza!” esclamò Sopravento. “È una gabbiana e i gabbiani volano!”. “Deve volare. L’ho promesso a sua madre e a lei. Deve volare” ripeté Zorba. “E la tua promessa impegna anche tutti noi” ricordò Colonnello. “Riconosciamo che non siamo capaci di insegnarle a volare e che dobbiamo chiedere aiuto fuori dal mondo dei gatti” suggerì Zorba.».

Chiedono dunque aiuto a un umano, quello con cui vive Bubulina, una gatta bianca e nera che ama trascorrere il suo tempo in mezzo ai vasi di fiori su una terrazza, dove l’uomo «si piazzava davanti a una macchina da scrivere. Era un umano strano, che a volte rideva dopo aver letto quello che aveva appena scritto, e a volte appallottolava i fogli senza nemmeno guardarli. La sua terrazza era sempre inondata da una musica dolce e malinconica che faceva assopire Bubulina e suscitava profondi sospiri nei gatti che passavano da lì. “L’umano di Bubulina? Perché proprio lui?” chiese Colonnello. “Non lo so. Quell’umano mi ispira fiducia” ammise Zorba. “L’ho sentito leggere quello che scrive. Sono belle parole che rallegrano o rattristano, ma non mancano mai di provocare piacere e desiderio di continuare ad ascoltare”. “È un poeta! Si chiama poesia quello che fa. Sedicesimo volume, lettera P, dell’enciclopedia” dichiarò Diderot. “E cosa ti fa pensare che quell’umano conosca il volo?” volle sapere Segretario. “Forse non sa volare con ali d’uccello, ma ad ascoltarlo ho sempre pensato che voli con le parole” rispose Zorba».

Ci avviciniamo al momento cruciale della storia e secondo me Gareth a questo punto sarebbe davvero molto coinvolto e curioso di sapere come andrà a finire. L’umano accetta di aiutare la gabbianella a volare e legge a Zorba alcuni versi di una poesia dello scrittore spagnolo Bernardo Atxaga, intitolata I gabbiani. Ma il loro piccolo cuore / – lo stesso degli equilibristi – / per nulla sospira tanto / come per quella pioggia sciocca / che quasi sempre porta il vento / che quasi sempre porta il sole.

069766c550b324cd1ece7c5fa10e6591.jpgDi notte accompagna quindi Zorba e Fortunata in cima a un campanile, il campanile di San Michele, in una notte piovosa, ad Amburgo. «“Ho paura” stridette Fortunata. “Ma vuoi volare, vero?” miagolò Zorba. Dal campanile di San Michele si vedeva tutta la città. La pioggia avvolgeva la torre della televisione, e al porto le gru sembravano animali in riposo. […] “Ho paura! Mamma!” stridette Fortunata. Zorba saltò sulla balaustra che girava attorno al campanile. In basso le auto sembravano insetti dagli occhi brillanti. L’umano prese la gabbiana tra le mani. “No! Ho paura! Zorba! Zorba!” stridette Fortunata beccando le mani dell’uomo. “Aspetta. Posala sulla balaustra” miagolò Zorba. “Non avevo intenzione di buttarla giù” disse l’umano. “Ora volerai, Fortunata. Respira. Senti la pioggia. È acqua. Nella tua vita avrai molti motivi per essere felice, uno di questi si chiama acqua, un altro si chiama vento, un altro ancora si chiama sole e arriva sempre come una ricompensa dopo la pioggia. Senti la pioggia. Apri le ali” miagolò Zorba. La gabbianella spiegò le ali. I riflettori la inondavano di luce e la pioggia le copriva di perle le piume. L’umano e il gatto la videro sollevare la testa con gli occhi chiusi. “La pioggia. L’acqua. Mi piace!” stridette. “Ora volerai” miagolò Zorba. “Ti voglio bene. Sei un gatto molto buono” stridette Fortunata avvicinandosi al bordo della balaustra. “Ora volerai. Il cielo sarà tutto tuo” miagolò Zorba. “Non ti dimenticherò mai. E neppure gli altri gatti” stridette lei già con metà delle zampe fuori dalla balaustra, perché come dicevano i versi di Atxaga, il suo piccolo cuore era lo stesso degli equilibristi. “Vola!” miagolò Zorba allungando una zampa e toccandola appena. Fortunata scomparve alla vista, e l’umano e il gatto temettero il peggio. Era caduta giù come un sasso. Col fiato sospeso si affacciarono alla balaustra, e allora la videro che batteva le ali sorvolando il parcheggio, e poi seguirono il suo volo in alto, molto più in alto della banderuola dorata che corona la singolare bellezza di San Michele. Fortunata volava solitaria nella notte amburghese. Si allontanava  battendo le ali con energia fino a sorvolare le gru del porto, gli alberi delle barche, e subito dopo tornava indietro planando, girando più volte attorno al campanile della chiesa. “Volo! Zorba! So volare!” strideva euforica dal vasto cielo grigio. L’umano accarezzò il dorso del gatto. “Bene, gatto. Ci siamo riusciti” disse sospirando. “Sì, sull’orlo del baratro ha capito la cosa più importante” miagolò Zorba. “Ah sì? E cosa ha capito?” chiese l’umano. “Che vola solo chi osa farlo” miagolò Zorba. “Immagino che adesso tu preferisca rimanere solo. Ti aspetto giù” lo salutò l’umano. Zorba rimase a contemplarla finchè non seppe se erano gocce di pioggia o lacrime ad annebbiare i suoi occhi gialli di gatto nero grande e grosso, di gatto buono, di gatto nobile, di gatto del porto.»

ee9ce5bd41e8994b0b729d6bb89b3844.jpgAh, se Gareth leggesse questa storia! Sono sicura che vincerebbe la paura e proverebbe a volare senza perdere un solo attimo a imitare ancora galline e papere. E poi… e poi dopo, una volta imparato a volare, sarebbe pronto per leggere un’altra storia di gabbiani scritta da Richard Bach che oltre che scrittore è anche pilota dell’Aeronautica Militare statunitense e pratica il volo acrobatico. Negli anni Settanta ha scritto un libro intitolato Il gabbiano Jonathan Livingston, che viene così presentato: «Jonathan Livingston è un gabbiano che abbandona la massa dei suoi simili per i quali il volare non è che un semplice e goffo mezzo per procurarsi il cibo e impara a eseguire il volo come atto di abilità e intelligenza, nobile ricerca di perfezione e fonte di gioia. Diventa così un simbolo, la guida ideale di chi prova un piacere particolare nel far bene le cose cui si dedica, di chi ha la forza interiore di seguire le sue convinzioni, di chi cerca il significato della propria esistenza liberandosi dai pregiudizi del gruppo e dall’ottusità delle convenzioni sociali. E con Jonathan il lettore viene trascinato in un’entusiasmante avventura di volo, di aria pura, di libertà».

Figuriamoci poi se il lettore ha le ali come Gareth! Potrebbe davvero non perdersi l’occasione splendida che ha di spiccare il volo come la gabbianella e di appassionarsi alla perfezione come il gabbiano Jonathan per il quale il volo è bellezza, libertà, un modo per elevarsi e distinguersi dalla banalità della massa. È straordinaria la storia di questo gabbiano, un racconto breve, molto semplice nello stile, ma intenso, e dedicato dall’autore «al vero Gabbiano Jonathan che vive nel profondo di noi tutti». Inizia così: «Era di primo mattino e il sole appena sorto luccicava tremolando sulle scaglie del mare appena increspato. A un miglio dalla costa un peschereccio arrancava verso largo. E fu data la voce allo Stormo. E in men che non si dica tutto lo Stormo Buonappetito si adunò, si diedero a giostrare ed accanirsi per beccare qualcosa da mangiare. Cominciava così una nuova dura giornata. Ma lontano di là solo soletto, lontano dalla costa e dalla barca, un gabbiano si stava allenando per suo conto: era il gabbiano Jonathan Livingston. Si trovava a una trentina di metri d’altezza: distese le zampette palmate, aderse il becco, si tese in uno sforzo doloroso per imprimere alle ali una torsione tale da consentirgli di volare lento. E infatti rallentò tanto che il vento divenne un fruscio lieve intorno a lui, tanto che il mare ristava immoto sotto le sue ali. Strinse gli occhi, si concentrò intensamente, trattenne il fiato, compì ancora uno sforzo per accrescere solo… d’un paio… di centimetri… quella… penosa torsione e… D’un tratto gli si arruffano le penne, entra in stallo e precipita giù. I gabbiani, lo sapete anche voi, non vacillano, non stallano mai. Stallare, scomporsi in volo, per loro è una vergogna, è un disonore. Ma il gabbiano Jonathan Livingston – che faccia tosta, eccolo là che ci riprova ancora, tende e torce le ali per aumentarne la superficie, vibra tutto nello sforzo e patapunf stalla di nuovo – no, non era un uccello come tanti.  La maggior parte dei gabbiani non si danno la pena di apprendere, del volo, altro che le nozioni elementari: gli basta arrivare dalla costa a dov’è il cibo e poi tornare a casa. Per la maggior parte dei gabbiani, volare non conta, conta mangiare. A quel gabbiano lì, invece, non importava tanto procurarsi il cibo, quanto volare. Più d’ogni altra cosa al mondo, a Jonathan Livingston piaceva librarsi nel cielo. Ma a sue spese scoprì che, a pensarla in quel modo, non è facile poi trovare amici, fra gli altri uccelli. E anche i suoi genitori erano afflitti a vederlo così: che passava giornate intere tutto solo, dietro i suoi esperimenti, quei suoi voli planati a bassa quota, provando e riprovando. Non sapeva spiegarsi perché, ad esempio, quando volava basso, sull’acqua, a un’altezza inferiore alla metà della sua apertura alare, riusciva a sostenersi più a lungo nell’aria e con meno fatica. Concludeva la planata, lui, mica con quel solito tuffo a zampingiù nel mare, bensì con una lunga scivolata liscia liscia, sfiorando la superficie con le gambe raccolte contro il corpo, in un tutto aerodinamico. […] Eccolo a circa trecento metri d’altezza che, battendo le ali a più non posso, si butta in picchiata: una picchiata vertiginosa verso le onde. A questo punto capisce perché ai gabbiani questa manovra, a tutta velocità, non può riuscire. In appena sei secondi, uno tocca le settanta miglia all’ora: velocità alla quale l’ala d’un uccello non è più stabile, nella fase ascendente. Ci si era provato più volte, ma sempre con lo stesso risultato. Pur mettendoci il massimo impegno, perdeva sempre il controllo, a una velocità così elevata. Saliva a quota trecento. Avanti dritto, a tutta birra, prima. Poi scivolata d’ala. E giù in picchiata. Niente! Ogni santa volta l’ala sinistra andava in stallo nella fase ascendente, lui veniva spostato con violenza a mano manca, stallava con la destra per cercare di riprendersi e, trac, cadeva in vite. Non riusciva a metterci sufficiente attenzione, al momento in cui dava quel colpo d’ala ascendente. Dieci volte ci aveva provato e ogni volta, appena toccate le settanta miglia orarie, si trasformava in una trottola di penne e, perduto il dominio dell’aria, tonfava nell’acqua. Il trucco – gli balenò alla fine in mente, quand’era ormai fradicio – consiste nel tenere le ali ferme. Sì: remeggiare finché non sei sulle cinquanta miglia, poi tener salde le ali. Salì a quota seicento e riprovò. Si buttò in picchiata, becco diritto in giù, ali tutte aperte, appena toccate le cinquanta, spiegate e ferme. Occorreva una forza tremenda, ma il trucco riusciva. Nello spazio di dieci secondi, era sfrecciato a novanta miglia l’ora. Jonathan aveva stabilito il record mondiale di velocità dei gabbiani! Ma il suo record fu di breve durata. Nell’istante in cui s’accinse a risalire, nell’istante in cui mutò l’angolazione delle ali, perse disastrosamente il controllo, frullò e divenne un turbinio di penne. Come prima: solo che, a novanta, fu un effetto-dinamite. E Jonathan esplose in aria. Piombò in mare. In un  mare duro come il granito. Quando tornò in sé, era buio da un bel pezzo. Galleggiava cullato dalla maretta, sulla scia del chiardiluna. Si sentiva le ali sbrindellate pesanti come piombo, ma più ancora gli pesava il fallimento. […] A fatica si tirò fuori dall’acqua e si diresse mestamente verso terra. Meno male che aveva imparato a volare a bassa quota, il che gli consentiva un risparmio di energie».

1aa91cfc4ce3e9386929756a2bc9920f.jpgUn po’ scoraggiato, Jonathan vola nella notte col proposito di tornare ad essere un gabbiano come tutti gli altri, ma gli pare di udire una voce: «Pòsati! I gabbiani non volano al buio! Se fossi nato anche tu per volare di notte, avresti gli occhi come una civetta! Una bussola avresti, per cervello! Avresti l’ala corta del falcone! Librato nelle tenebre, lassù, il gabbiano Jonathan, a questo punto, batté gli occhi. La fatica svanì, svanì il dolore, e anche i buoni propositi svanirono. L’ala corta. Le ali corte di un falco! Ecco la soluzione. Che sciocco a non averci pensato prima! Quello che occorre è solo un’ala corta: e, allora, basterà che io tenga raccolte le mie ali, che le tenga ritirate, quasi del tutto, e che ne adopri soltanto le estremità. Ali corte! Si portò subito a seicento metri di quota, sopra il mare di pece e, senza star lì a pensare un momento che poteva fallire, anche morire, portò le ali ad aderire saldamente al corpo, lasciando tese al vento solo le strette estremità di esse, a mo’ di alettoni, e si gettò in picchiata. Il vento gli intronava nella testa con un fragore spaventoso. Settanta miglia all’ora, novanta, centoventi, e ancora, ancora. Più forte. A centoquaranta miglia l’ora la tensione dell’ala era inferiore a quella di prima a settanta, e bastò una leggerissima torsione per uscire di picchiata e saettare verso il cielo alto, grigio bolide sotto il chiardiluna. Raggrinzì gli occhi a fessura, nel vento, e il suo cuore esultava. Centoquaranta miglia all’ora! Senza dare una sbandata! E se mi tuffo non da cinquecento ma da mille metri e più, chissà a che velocità… […] Al levar del sole, Jonathan era di nuovo là che si allenava. Visti da mille e più metri, i pescherecci sembravano scagliuzze nella glauca distesa delle acque, lo Stormo Buonappetito come un indistinto nugolo di volteggianti atomi di polvere. Lui si sentiva vivo come non mai, e fremente di gioia, fiero di aver domato la paura. Poi, senza indugio alcuno, si attillò le ali al corpo, protendendo solo i sòmmoli angolati, e si scagliò dall’alto a capofitto. Percorsi circa trecento metri, aveva già raggiunto la velocità-limite: il vento adesso era una solida barriera pulsante, da sfondare, non poteva darci dentro più forte. Stava volando a perpendicolo a ben duecento e quattordici miglia all’ora. Deglutì. Se gli si spalancano le ali, addio, di lui non rimarrà che un milione di pezzetti di gabbiano. Ma la velocità era potenza, era gioia, era bellezza. A quota trecento iniziò la richiamata: l’estremità sporgente delle ali tagliava il vento con un fruscio sordo e pareva prossima a schiantarsi, lui era una meteora e la barca e lo sciame dei gabbiani, sul piano inclinato del mare, apparivano sempre più grossi, sulla sua traiettoria di volo. Non poteva fermarsi. E nemmeno di virare era capace, a quella velocità. Collisione uguale morte. Istantanea. Allora chiuse gli occhi. Così accadde che, quella mattina, poco dopo il levar del sole, il gabbiano Jonathan Livingston passò come una saetta nel bel mezzo dello Stormo Buonappetito, a duecento e dodici miglia orarie, a occhi chiusi, proiettile pennuto e sibilante. Il Gabbiano della Fortuna gli fu benigno, per quella volta. Non ci furono morti. Quando cominciò a riprendere quota, filava ancora alla bellezza di centosessanta miglia all’ora. Quand’ebbe rallentato sulle venti, e finalmente riapri le ali, il peschereccio era una mollica laggiù, sul mare, a più di mille metri sotto di lui. Ebbe un moto di trionfo. Aveva toccato il limite estremo della velocità! Un gabbiano a duecentoquattordici miglia orarie! Era un primato che segnava una data, era il momento più fulgido nella storia dello Stormo, e per il gabbiano Jonathan da quel momento si dischiudevano orizzonti nuovi. Si portò a un’altezza di duemila e cinquecento metri – nella plaga remota prescelta per le sue esercitazioni – e, retratte le ali per un nuovo spettacoloso tuffo, si accinse senza porre tempo in mezzo a imparare la virata. Una singola penna del sòmmolo – scoprì – mossa d’una frazione di centimetro, permette di effettuare un’ampia scorrevole virata, a folle velocità. Prima di arrivarci, però, scoprì a sue spese che, a muoverne più d’una delle penne, schizzi via a vortice come una palla di fucile… Sicché Jonathan fu anche il primo uccello che eseguì voli acrobatici. Non perse tempo, quel giorno, a parlare con gli altri gabbiani, ma seguitò a volare solitario fin a dopo il tramonto. E scoprì la gran volta, la vite orizzontale, la virata imperiale, la scampanata, la gran volta rovesciata. Quando il gabbiano Jonathan tornò presso lo Stormo, sulla spiaggia, era ormai notte fonda. La testa gli girava, era stanchissimo. Tuttavia, tanto era allegro che compì una gran volta e una fulminea vite orizzontale prima di toccar terra. Quando lo sapranno – pensava –, quando sapranno delle Nuove Prospettive da me aperte, impazziranno di gioia. D’ora in poi vivere qui sarà più vario e interessante. Altro che far la spola tutto il giorno, altro che la monotonia del tran-tran quotidiano sulla scia dei battelli da pesca! Noi avremo una nuova ragione di vita. Ci solleveremo dalle tenebre dell’ignoranza, ci accorgeremo d’essere creature di grande intelligenza e abilità. Saremo liberi! Impareremo a volare!».                       

1279264c1512f2d0256377e6bd723924.jpgCon grande forza di volontà e coraggio Jonathan riesce a realizzare il suo sogno e con entusiasmo vuole trasmettere anche agli altri la straordinaria bellezza di ciò che ha scoperto. Ma le cose non andranno così e Jonathan sarà cacciato dallo Stormo a causa della sua «temeraria e irresponsabile condotta» e per essere andato contro la tradizione dei gabbiani. Senza dargli modo di spiegarsi viene mandato in esilio sulle Scogliere Remote.

Una vita solitaria alla quale viene condannato dall’Assemblea Generale che impassibile sentenzia: «“…affinché mediti e impari che l’incosciente temerarietà non può dare alcun frutto. Tutto ci è ignoto, e tutto della vita è imperscrutabile, tranne che siamo al mondo per mangiare, e campare il più a lungo possibile.” […] “Non abbiamo più nulla in comune, noi e te” intonarono in coro i gabbiani, e, con fare solenne, sordi alle sue proteste, gli voltarono tutti la schiena. E il gabbiano Jonathan visse il resto dei suoi giorni esule e solo. Volò oltre le Scogliere Remote, ben oltre. Il suo maggiore dolore non era la solitudine, era che gli altri gabbiani si rifiutassero di credere e aspirare alla gloria del volo. Si rifiutavano di aprire gli occhi per vedere. Ogni giorno lui apprendeva nuove cose. Imparò che, venendo giù in picchiata a tutta birra, puoi infilarti sott’acqua e acchiappare pesci più prelibati, quelli che nuotano in branchi tre metri sotto la superficie: non aveva più bisogno di battelli da pesca e di pane raffermo, lui, per sopravvivere. Imparò a dormire sospeso a mezz’aria, dopo aver stabilito alla sera la sua rotta, nel letto della corrente d’un vento fuoricosta, e coprire così un centinaio di miglia dal tramonto all’alba. Con uguale padronanza ora volava attraverso fitti banchi di nebbia sull’oceano, o sennò si portava al di sopra di essi, dove il cielo era limpido e il sole abbagliava… mentre gli altri gabbiani, con quel tempo, se ne stavano appollaiati in terraferma, mugugnando per la pioggia e la foschia. Imparò a sfruttare i venti d’alta quota, e portarsi nell’entroterra, per un bel tratto, e far pranzo con insetti saporiti. Quel che aveva sperato per lo Stormo, se lo godeva adesso da sé solo. Egli imparò a volare, e non si rammaricava per il prezzo che aveva dovuto pagare. Scoprì ch’erano la noia e la paura e la rabbia a rendere così breve la vita d’un gabbiano. Ma, con l’animo sgombro da esse, lui, per lui, visse contento, e visse molto a lungo».

67470141f223dce5c874070950cbeacc.jpgPoi Jonathan volò ancora più in alto nel cielo, fino a raggiungere nuove dimensioni, altri livelli di volo, nuovi traguardi da raggiungere con un nuovo corpo e nuove ali che rendevano meno faticoso e molto più veloce il suo volare. In quel nuovo mondo chiese agli altri gabbiani che vi trovò se quello fosse il paradiso, e il più anziano gli rispose: «“Non si finisce mai d’imparare Jonathan”. “Ma allora, dopo qui, cosa ci aspetta? Dove andremo? E un posto come il paradiso c’è o non c’è?”. “No, Jonathan, un posto come quello, no, non c’è. Il paradiso non è mica un luogo. Non si trova nello spazio, e neanche nel tempo. Il paradiso è essere perfetti.” Tacque un minuto e poi: “Tu sei uno che vola velocissimo, nevvero?”. “Mi… mi piace andare forte” disse Jonathan, preso alla sprovvista, ma fiero che l’Anziano se ne fosse accorto. “Raggiungerai il paradiso, allora, quando avrai raggiunto la velocità perfetta. Il che non significa mille miglia all’ora, né un milione di miglia, e neanche vuol dire volare alla velocità della luce. Perché qualsiasi numero, vedi, è un limite, mentre la perfezione non ha limiti. Velocità perfetta, figlio mio, vuol dire solo esserci, esser là”».                  

ed00ac4197f85e4a522e68eeba9c0e4e.jpgDunque Jonathan passò del tempo, o qualcosa che sembrava essere tempo, a fare incredibili progressi a volare in quel nuovo modo, concentrandosi col pensiero per trasferirsi in un altro spazio e in un altro tempo finché ebbe la consapevolezza di non avere più un corpo di gabbiano, «di non essere di carne e ossa e penne, ma un’idea: senza limiti né limitazioni, una perfetta idea di libertà».

Tornando al nostro timoroso e pigro gabbianello Gareth, cosa potremmo augurargli? L’impresa di imparare a leggere forse è davvero troppo ardua, direi impossibile, almeno finché si tratta di libri di carta scritti dagli umani. Ma chissà, magari un giorno, all’improvviso, vedrà volare un suo simile e supererà la paura come la gabbianella Fortunata, e poi potrebbe ammirare il volo di un gabbiano speciale come Jonathan, e forse per lui sarà come leggere qualcosa nel cielo, un libro scritto nell’aria da ali perfette. E allora gli auguriamo di capirlo, di rimanere affascinato dalla bellezza e dalla poesia dello sfogliare di quelle pagine e di imparare a volare nella luce e nel calore del sole, nell’aria fresca, nella pioggia, nel vento… di volare bene, veloce, sempre più in alto, libero e felice. Coraggio Gareth! Vola!

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I brani citati nel testo sono tratti da:

Cristina Nadotti, Il gabbianello che credeva di essere papero, in «Il Venerdì di Repubblica», n° 956, 14.7.2006, pp. 76-79

Luis Sepúlveda, Storia di una Gabbianella e del Gatto che le insegnò a volare, Salani Editore, 1998  

Richard Bach, Il gabbiano Jonathan Livingston, Biblioteca Universale Rizzoli, 2004

Inoltre, anche come accompagnamento musicale alla lettura, vi segnalo:

www.ilvolodeigabbiani.itwww.aurorablu.it/libri/gabbiano_jonathan.htm

Gabbianiultima modifica: 2007-07-26T23:00:00+02:00da riccarda63
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