6 settembre 1931 – 1° febbraio 1994

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Oggi è il 6 settembre, il compleanno di mio padre. Ma prima di fargli gli auguri mi soffermo a rileggere una cosa che ho scritto 13 anni fa, dedicata a lui e intitolata “1° Febbraio 1994″… 

È ancora buio. Apro le finestre dell’ufficio vuoto. È una mattina fredda e il cielo inizia un’alba limpida. Accendo video, tastiera e stampante. Solito rumorino. Solito sibilo nel silenzio. Ho ancora i piedi freddi. Poso la borsa, le chiavi del motorino e mi tolgo il giaccone. Con la mano pettino i capelli schiacciati dal casco. Tra un’ora entreranno i colleghi, inizierà la giornata, arriverà gente. Nella mia anticipata ora di straordinario, per poter uscire prima e catapultarmi a casa per la staffetta con mio marito, devo inserire i dati di alcune fatture, timbrare le bollette e forse se c’entra… Chissà se i bambini sono già svegli.

Squilla il telefono. È presto per le informazioni. Chi sarà? Una voce familiare. Una notizia. Lo stomaco improvvisamente fa male. Lungo il corpo una strana sensazione. Riattacco. Recupero la mia roba e corro giù per le scale. All’uscita due parole per giustificare la fuga. Mi viene da piangere. Corro via. Da Piazza Duomo a casa esattamente dieci minuti di motorino a tutta birra rispettando i semafori rossi solo per istinto di sopravvivenza. La strana sensazione non è passata. Il casco rischiaccia i capelli e copre le lacrime. Sotto casa tua chiudo il motorino e mi sforzo di non piangere. Salgo di corsa.

Sei a letto. La mamma e Stefano ti hanno aiutato a rialzarti. Eri caduto. Eri svenuto. Ti vedo sorridermi. Ti sei ripreso. Mi parli e non ti lamenti come del resto non hai mai fatto durante tutta la malattia. E la tensione si allenta perché siamo lì con te, io, la mamma e Stefano e parliamo, sdrammatizziamo.

Arriva Andrea. Impauriti io e lui ci guardiamo. Come hai lasciato i bambini? Tutto a posto, mi tranquillizza. Poi tutti insieme a scambiare qualche altra parola, l’ennesima, per convincerti, o convincerci, che ti riprenderai e che sei debole per quello che hai avuto. Qualche battuta forzata, una stretta di mano, un bacio per tirarti su.

Rimango qui stamattina. Ma no sto meglio, ritorna pure in ufficio, hai già così poche ferie. Ma ti vedo così dimagrito nella giacca a righe del pigiama, il volto scavato, la piazzetta sulla testa spettinata, il colorito giallo che nasconde il pallore. No, babbo, ormai non ci ritorno, voglio stare qui, non mi muovo.

Quasi le otto del mattino. C’è più luce fuori. Vedo il sole attraverso la tenda. Il vetro è un cristallo gelato. All’improvviso dici una cosa senza molto senso. Non ci capiamo. Non era mai successo. Mai nella mia vita ti ho sentito parlare a sproposito. Cerchi qualcosa vicino alla bottiglia dell’acqua, ma non riesci a dire cosa. Di nuovo una strana sensazione in tutto il corpo. Lo stomaco mi fa male di nuovo.

Non parli più. Chiudi gli occhi e respiri piano. L’ambulanza non arriva mai. Forse non si è illusa come noi aggrappandosi a un filo di speranza che svanisce, e giunge piano piano, senza fretta. La mia mano stringe la tua, calda e magra, ma ancora grande e sicura. Io e Andrea ci guardiamo. La mamma già piange. Stefano cammina nella stanza. Non rispondi. Il tuo respiro è lento e infrequente. La tua mano ancora nella mia, sempre calda.

Poi in un attimo apri gli occhi più del solito e fissi stupito un punto indefinito del soffitto. Ti parlo, ti chiedo cosa vedi. Non mi rispondi. Sento le lacrime annebbiarmi gli occhi. La mamma si siede accanto con gli occhi gonfi, increduli che sia già arrivato quel momento. Stefano piange alla finestra. Andrea è immobile, serio. I volontari dell’ambulanza con la giacca arancione sono fermi in un rispettoso silenzio e la dottoressa, dispiaciuta, ti visita inutilmente. Il tuo polso è troppo debole, i tuoi occhi di nuovo chiusi dopo quello sguardo stupito come verso un meraviglioso mistero. Lo stetoscopio sul tuo addome segnato dai bisturi non servirà.

L’orologio della nonna sul mobile continua il movimento del suo pendolo. Lui non si è fermato alle nove. Ho avvertito il tuo ultimo respiro mite. La tua mano di nuovo nella mia, sempre calda. Pianto. Silenzio. Solo il rumore della valigia del medico che si chiude.

Il tuo viso è sereno, quasi sorridi. Il tuo male assassino è morto, non può farti più niente e noi possiamo piangere di fronte a te senza preoccuparti. Ti sistemano nella stanza che era la mia, con la tappezzeria a fiori che desideravo da bambina. Ogni tanto ci abbracciamo fra noi intorno a te e ti guardiamo increduli. I miei figli, i tuoi tre nipotini che hai dovuto lasciare, non ci sono, sono troppo piccoli per essere qui adesso, ma si ricorderanno sempre di te.

Il calore e le belle parole della gente, tanta, si alterna al gelo del dolore nel cuore, crudele, e ci commuovono le lacrime della lattaia di fronte, gentile e grassoccia nel suo cappotto corto brizzolato. È venuta a restituirti un sorriso, uno dei tanti che tu hai distribuito a tutti. Sempre.

Strette di mano sincere, calde, e dalla finestra il sole rigido e secco di febbraio. Ti prendo di nuovo la mano, ormai fredda.

Da allora avverto il tuo calore in ogni cosa bella della vita.

Auguri lo stesso babbo.

Ah, mi raccomando, conserva come un fiore, come hai sempre fatto in vita, anche la mamma che dal 12 aprile 2002 ti ha raggiunto, ovunque tu sia, ovunque voi siate.

a930a3c11983cd31e6c370307e9784bb.jpgIo  vi immagino ancora così, giovani, belli e felici. Chissà se dalla vostra dimensione potete percepire i miei pensieri, le mie parole scritte… chissà.

A qualunque età, anche da adulti, quando muore il padre ci si sente smarriti, qualcosa dentro si rompe, ma quando muore la mamma lo smarrimento è tale da strapparti dentro e ti senti improvvisamente solo anche se sei adulto, già genitore, ormai già autonomo e anche se solo non sei.

Provi una sensazione difficile da spiegare… poi naturalmente la tua vita va avanti, sei un uomo o una donna, marito o moglie, padre o madre, e ti rassegni a quella legge di natura che nella maggior parte dei casi vede volar via prima i genitori e poi i figli, anche se talvolta in maniera un po’ prematura. Ma anche se la tua vita va avanti il ricordo resta e la nostalgia torna nei momenti di tristezza perché avresti bisogno di una carezza, di un consiglio, di un abbraccio sicuro, ma anche in quelli di gioia e soddisfazione perché vorresti condividerli e non puoi più farlo.

6 settembre 1931 – 1° febbraio 1994ultima modifica: 2007-09-06T11:00:00+02:00da riccarda63
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