Legame azzurro

8326a101e1f5adce5ab7e2b54f48f42b.jpgEra morbido il tunnel in cui stavo rotolando verso una meta sconosciuta. Non sapevo che fosse anche buio perché non conoscevo ancora l’esistenza della luce e nemmeno che un giorno avrei avuto gli occhi. Fin dalla prima scintilla sublime ho avvertito affollarsi le giovani cellule che si disponevano, smistandosi ordinatamente, a formare il mio corpo abbozzato.

In quei magnifici giorni ero sommerso in un liquido caldo, sospeso in un umido dondolio, e il nido che avevo raggiunto era legato a me ed io a lui da un dono di vita che mi innamorava di quella linfa preziosa che giungeva portandomi verso la completezza e la luce.

L’oscurità non spaventava i miei occhi primordiali e chiusi, mentre adoravo il fluido sciabordio intorno a me, i suoni amniotici e musicali che udivo e la carezza delle pareti protettrici. Il mio cuore correva con piccoli battiti vivaci e molte volte mi addormentavo cullato dal suono costante di un cuore più grande, lento, sicuro.

Non ricordo quanto tempo ho trascorso in quella culla sempre più avvolgente, tesa e trasparente. Man mano che mi sentivo crescere, gli occhi socchiusi mi rivelavano una penombra rosa, presagio di dolcezza, finché un giorno abbandonai il massaggio delle acque e mi inondò la luce. Sorprendente. Accecante. Poi lieve e accogliente al contatto con la pelle affaticata della mia insostituibile fonte vitale.

Scoprii l’alternarsi del giorno e della notte, del sonno e della veglia, delle stagioni calde e fredde, e il variare d’intensità della luce nell’arco delle ore. Immagini inedite in successione di gioco e cantilena meravigliavano i miei occhi aperti e gli altri sensi scoprivano un profumo esclusivo, il velluto della pelle, un gusto gonfio e goloso e la melodia di una voce unica al mondo che, lei sola, riusciva a farmi dimenticare il liquido abbraccio che avevo abbandonato.

Quell’acqua paradisiaca mi mancava quando la sinfonia della voce taceva, ma ben presto ritrovai il mio elemento amico. Fluido, caldo, familiarmente viscido e, con mia sorpresa, saponoso con giochi di bolle delicate. Lo incontravo spesso e lo muovevo con piccole onde che mi ricordavano il ritmo del grande cuore.

Imparai presto che esisteva un altro amico immenso, animato da un moto proprio, insistente, che cullava all’infinito la vita al suo interno. Conobbi parte dei suoi confini e li manipolai creando potenti castelli seccati dal vento, mentre il sole mi coloriva la pelle e fortificava le ossa. I miei piedi correvano sulla sabbia del litorale e rallentavano sui sassi tondi che crepitavano di gioia al contatto con la carezza strisciante dell’acqua che li sommergeva d’un tratto per lasciarli, subito dopo, emergere lucidi da una schiumetta svanente.

Un giorno i miei piedi ancora piccoli e morbidi, dal pavimento della casa illuminato da nastri solari che filtravano attraverso le persiane di salsedine, mossero i loro passi sui granelli di sabbia, sui sassi bollenti, su quelli umidi e su quelli bagnati immersi nelle prime ciglia d’azzurro. Lo incontrai così il mio grande amico. Ridevo e scalciavo, pazzo fra ricordi e sorprese, mentre lui mi accoglieva con onde affettuose.

Il suo massaggio, il sapore sulle labbra, i capelli stopposi, la pelle abbronzata e opaca di sale secco, mi accompagnarono negli anni più belli della mia vita. Mio padre, un giorno, mentre osservavo quel compagno fedele devastarsi i bordi nebulizzandosi di iodio, si avvicinò a me. Le reti del suo peschereccio riposavano annusando il proprio odore. Mi parlò delle maree inventate dalla luna e dal sole, delle rotte di navigazione fra i fantasiosi arcipelaghi delle isole immerse. Mi raccontò delle scogliere continuamente modellate da quel volubile artista, frastagliato scultore di faraglioni, penisole e promontori, estroso pittore di baie e di golfi, di insenature e di stretti che, sulla sua tavolozza, rompeva onde d’azzurro da spruzzare di bianco.

La mia mente, alimentata dal fosforo e dai racconti di pesca, conosceva a poco a poco la vita sommersa e ricordo che ringraziavo tutte le creature che mi permettevano di crescere sacrificandosi per me. Rispondevo al sorriso dei delfini, mi inteneriva la tenuità del plancton indifeso e la celeste trasparenza delle meduse. Mi incuriosiva il mimetismo delle sogliole, mi divertiva l’ondeggiare delle alghe e degli anemoni e mi sorprendeva la bellezza dei ventagli naturali che rinvenivo sulla battigia.

Inventavo avventure di molluschi, battaglie di cozze, danze di calamari e totani, cortei di granchi e gamberetti in uniforme corazzata incrociare parate di ippocampi, crostacei pirati predare i tesori delle ostriche e fantasticavo su un esercito di prodi polipi dai tentacoli invadenti che si esibivano in sinuose piroette, gelosi dei numeri circensi dei pesci pagliaccio.

Se non fosse stato per la necessità del respiro sarei vissuto per sempre laggiù fra le correnti, sui fondali e poi su, in trionfo sulle creste e cullato nei cavi delle onde come i delfini gioiosi, e poi di nuovo giù fin negli abissi dove c’è vita anche nel freddo e nella notte. L’oscurità del blu abissale non mi impauriva. Ricordava il mio buio primordiale e confidavo in un legame azzurro, misterioso ma affascinante.

A quei tempi sognavo di costruire un castello di scogli con finestre di madreperla, la porta di corallo, le torri di conchiglie e una bandiera di alghe al vento. La regina di quel castello aveva nella voce una melodia unica al mondo, sedeva su un trono di faraglione potente di flutti e sfoggiava una corona di perle e un mantello di spruzzi iridescenti. Il re era il guardiano del faro più grande e brillante di tutti gli oceani del mondo e, quasi quanto adorava la regina, amava la vita degli uomini di mare, così la proteggeva avvisandoli del pericolo.

I miei piedi giovani divennero più grandi e la loro pelle più spessa. Erano nel pieno della forza e, con l’energia dei progetti, muovevano passi desiderosi sulla costa che incontrava le onde nel semicerchio irregolare del golfo. Poggiati fermamente sul legno ruvido del peschereccio, mi videro apprendere le tecniche di pesca che mio padre aveva ereditato dal nonno. Innumerevoli volte corsero incontro a una rete svuotata del suo guizzante bottino.

Sicuri e decisi sullo scafo ondeggiante, conobbero a fondo quel lunatico compagno. Provarono l’allegria delle spume pelagiche, il brio delle increspature irregolari e ventose, la calma piatta, la cantilena dell’onda lunga e la superiorità della tempesta.

Mi resi conto di amarlo al di là della fantasia e della bellezza, anche se talvolta sembrava essere un nemico minaccioso che mi sfidava a duello come quando, di notte, il suo frastuono impetuoso veniva trasportato in cielo dal vento teso. Quando mi coglieva così di sorpresa, io stavo al suo gioco e, con la certezza che lui non mi avrebbe tradito, lo lasciavo sfogare mettendolo alla prova per vedere se ricambiava il mio amore. E infatti non mentiva. Le sue burrasche non hanno mai scalfito il mio cuore. Solo il mio viso è stato disegnato dalla tempesta, ma lui non ha colpa. È stato l’uragano del tempo.

I miei piedi ora sono grandi, induriti da calli faticosi. La pelle dei calcagni è spaccata in tanti solchi bianchi e le dita deformi trovano accoglienza e riposo sulla sabbia ancora tiepida.

Come ogni sera d’estate vengo qui, mi siedo sulla spiaggia coi calzoni arrotolati a metà polpaccio e la canottiera bianca che spicca sulla pelle scura. Stavolta non ci sono gabbiani in cerca di compagnia e, in mancanza dei suoni rauchi e stridenti che emettono mentre volteggiano sfruttando le correnti d’aria, solo il suono dell’acqua riempie il silenzio. Volgo lo sguardo verso il faro acceso sul promontorio. Lampeggia e pare che mi saluti. Osservo il mio compagno, il grande mare di fronte a me. È calmo e mio nipote, sul peschereccio, stanotte sarà in buone mani.

La sabbia sotto le dita si raffredda e le piccole onde giocherellone si infrangono sulla battigia nel solito scambio musicale con i sassi che si lasciano arrotondare. La terra intanto restituisce la brezza serale all’acqua tranquilla e ancora tiepida dopo una giornata rovente.

Ti osservo ancora, marea stupenda. Il sole del tramonto ti ha colorato di corallo e, innamorato anch’esso di te, si è immerso nell’altra tua parte. Un leggero alito d’aria soffia sui miei capelli bianchi e mi distendo, abbandonato e immobile come un relitto sui fondali. Un’insolita serenità pervade la mia mente, vivace come non lo è più il corpo che, come un’ancora, gravita a terra. Le membra in lotta con il tempo le avverto quasi intorpidite e penso a te, amico blu, che sei antico più di me e non hai riposo.

Poi un respiro lento e un battito calmo e i ricordi si affollano di visioni e sensazioni. L’antica penombra rosa, le onde liquide e tonde, il bagliore improvviso della vita, quell’indimenticabile sinfonia materna, il castello fantastico della regina dei mari, il faro del re dei pescatori.

Un battito pigro e un respiro fragile.

Vedo il mare, antico e primo custode della vita, che dirige la danza classica delle meduse e i balletti dei cavallucci, le esibizioni dei polipi e il tango delle aragoste. Nel teatro subacqueo la colonna sonora di un’orchestra d’onde accompagna la rappresentazione mentre una scenografia di pesci variopinti e creature multicolori fa da sfondo dietro al sipario blu.

Un respiro lieve e un battito debole.

Un peschereccio di perla con reti di corallo piene di guizzi brillanti, le onde lunghe languide d’amore, le tempeste ostacolate dagli scogli, le palette dei bimbi, le notti di fatica e i giorni di sale, arcipelaghi di lampare orlano di luci i merletti frastagliati al confine fra la terra e il mare.

Un battito spento e un respiro stanco.

In pochi secondi si alternano il candore appisolato dell’inverno, la delicatezza infantile della primavera, la gioiosa esuberanza dell’estate, la splendida senilità dell’autunno, e si combinano con la trasparenza dell’alba, la passione focosa del mezzogiorno, il saluto arancione del tramonto e le stelle accese della mezzanotte.

Le immagini continuano a susseguirsi rapide nella mente e non serve aprire le palpebre verso il cielo che si fa notturno su di me.

Uno degli ultimi flebili respiri. Uno dei pochi gracili battiti rimasti.

Sento che devo partire. Chissà se alla fine del mio viaggio ti ritroverò così bello come sei, mare che mi vegli in quest’istante che si estingue. Mi addormenterò respirando questa speranza, cullato dal battito sempre più lento del mio cuore. E se dove andrò non ci sarai, ricordati di me.

Le onde delicate di quella sera si ruppero morbidamente sulla riva con un ritmo sempre più rado. Per pochi attimi i sassi tacquero. Le conchiglie attesero…

La prima nuova onda giunse in ritardo, dopo quell’intervallo sospeso, e guidò la ripresa del moto perpetuo di quelle che la seguivano. Il coro dei sassi cantò di nuovo nel silenzio della spiaggia. I colori di un secchiello, dimenticato fra impronte allegre, erano avvolti di penombra lunare.

Un altro leggero alito di brezza sfiorò un ciuffo candido e salino, le palpebre chiuse e un sorriso di pace.

Le lampare, come perle luminose, proseguirono il disegno delle stelle.

* * * * * * * * * *

Questo mio racconto ha ricevuto una menzione d’onore nell’8° Concorso di Letteratura Giovanile “Zaccaria Negroni” promosso nel 1999 dal Gruppo di Servizio per la Letteratura Giovanile (Roma). È stato pubblicato su “La Vetrina di Pagine Giovani”, supplemento al n° 4/1999 di “Pagine Giovani”, organo ufficiale del Gruppo.

Oro di paglia

a8f8fcf25295a1dd89502da391bfa989.jpgEra giunta l’ora. Il tempo aveva consumato la candela dalla quale una stellina di fuoco tese l’ultima fiammella verso l’alto e sparì in un filo di fumo appena nato, sottile e leggero, che in cielo volò in una direzione nuova.

Una spiga di grano, affascinata da quel volo, volle seguirlo. Il suo stelo lasciò tutti i chicchi al pane povero e sotto al sole biondo s’incamminò nel vento dietro quella traccia nell’aria. Un ultimo sguardo da lontano, indietro verso le messi falciate e la ricchezza di spighe, curioso di vedere se qualcuno lo seguiva, ma proseguì da solo guidato dalla mappa della scia.

Lasciò impronte delicate sui percorsi ventosi della sabbia d’oro, morbida strada per il suo cammino, e galleggiò leggero sui riflessi aurei dell’acqua che incontrò e che gentilmente lo trasportò per qualche tratto fra una sponda e l’altra.

Lungo la via invitò a seguirlo alcune monete d’oro, gioielli ed ornamenti preziosi, ma questi si sentivano troppo importanti per seguire un povero filo di paglia che correva dietro a un filo di fumo, e così, sempre più pesanti e pigri, preferirono restare comodamente nei loro forzieri. La pagliuzza proseguì da sola. Avrebbe voluto accompagnare un dono nel luogo dove la scia stava adagiandosi dal cielo sulla terra, ma non possedeva niente.

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Avvicinandosi al punto indicato dalla scia che stava finendo il suo disegno nel tramonto, vide giungere tanta gente da altre direzioni, attratta dalla stellina di una fiammella nuova, appena nata, che brillando si rifletteva negli occhi di ognuno.

 

Da vicino la fiammella aveva uno splendore mai visto prima e ad ammirarla c’erano tanti altri fili di paglia, a mani vuote, semplicemente poveri, ma brillanti come l’oro per i riflessi di quella luce.

 

La fiammella era adagiata su una culla d’oro, d’oro di paglia, silenziosa e mite nella veglia. L’aria respirava un profumo bambino e un calore piccino, e la pagliuzza donò sé stessa alla culla d’oro, d’oro di paglia, luce umile che illumina il tempo e non abbaglia. 

 

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Ho scritto questo piccolo raccontino intitolato Oro di paglia una decina di anni fa. E’ sempre rimasto inedito, però da esso un giorno ho tratto dei versi componendo una piccola poesia, sempre con lo stesso titolo, che invece è stata pubblicata nel 1999 nei Quaderni di Poesia – Il CalamaioBook Editore – Castel Maggiore (Bologna).

 

Oro di paglia  

Sei nato come una fiammella

luce mai vista che negli occhi brilla.

Sei nato in una culla d’oro, d’oro di paglia

silenziosa, povera e mite nella veglia.

Nell’aria si respirava un profumo bambino

e lo scaldava un calore piccino.

Una pagliuzza giunta col vento

si fermò ad ammirare il meraviglioso evento

non aveva nulla da donare

ma resto a guardare e pregare.

Donò se stessa alla culla d’oro, d’oro di paglia

nido di luce umile che illumina il tempo e non abbaglia.

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Inoltre, proprio oggi ho creato anche un video su YouTube, con immagini ispirate a questi miei pensieri e con una musica bellissima ad accompagnarle. Per vederlo e ascoltarlo cliccare QUI 

Questo è il mio modo per augurare 

Buon Natale

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Amici nella nebbia

fc6325a3e975105c70346af9a59a3cfd.jpgSi fermò, davanti a me, e cominciò a fissarmi. I nostri cappotti erano dello stesso colore. Il mio un tempo era color cammello. L’avevo trovato alla discarica. Era macchiato solo in tre punti più scuri, ma la solitudine delle tre macchie non durò a lungo e il color cammello, sfrattato, se ne andò.

Il cappotto di quel passante che si era fermato ad osservarmi era più peloso e avvolgente, forse più caldo. Non ero mai stato invidioso, ma l’avrei voluto. Non era della mia misura e poi lui non aveva nemmeno una sciarpa a rete bucata come la mia intorno al collo. Non potevo privarlo anche del cappotto.

Sul capo aveva delle strane protuberanze spelacchiate. Tutta la testa era spelacchiata. Forse soffriva di una strana malattia. Probabilmente anch’io ero malato. Lo stomaco svelava la sua dolorosa presenza e l’equilibrio era spesso precario. Quella mattina poi l’umidità era filtrata attraverso  l’imbottitura ondulata del mio nuovo sacco a pelo fino a raggiungere le mie vecchie ossa. La notte precedente doveva essere caduta la solita pioggerellina clandestina degli ultimi giorni. Silenziosa, leggera, non per questo meno bagnata.

Il mio cappello bianco e nero, fitto di notizie, era fradicio. Le decorazioni del sacco a pelo, la scritta fragile, il disegno di un bicchiere ed altri simboli forse indiani, si erano scurite e inflaccidite insieme a tutto il resto.

Ero ancora disteso sulle sbarre dure della panchina del parco pubblico, lungo il fiume mimetizzato dalla nebbia. Il passante mi fissava con i suoi occhi marroni velati. Si era avvicinato a passi lenti, come stanco di un cammino notturno e solitario.

Già da tempi remoti non avevo più un orologio. Neanche lui l’aveva. Fermo, nel riposo di guardarmi, notai che era triste. Era più sfortunato di me. Non aveva le scarpe. La ghiaia era fredda quel mattino. Mi alzai seduto. Con le mie scarpe di maglioni non la sentivo tanto fredda. Solo il suo suono mi giunse gelido. Intanto il sole aveva reso più bianca la nebbia, ma nessun raggio l’aveva ancora dissolta. Si intravedevano, appannati e silenziosi, i fili stellati dell’abete accanto alla fontana. Ero sicuro che fosse da poco trascorsa l’alba. Mi svegliavo sempre alla stessa ora, non dell’orologio, ma del passerotto che, sulla panchina di fronte, saltellava in cerca di briciole di vita.

Il passante di quel mattino, l’unico dopo tanti risvegli che si era fermato accorgendosi di me, continuava a fissarmi. Per un attimo sospettai che volesse derubarmi e gli dissi di andarsene. Lui non rispose e restò fermo davanti a me abbassando leggermente il capo. Sicuramente era malato. Aveva uno strano naso nerastro e tremava. Forse era anche muto, magari sordo. Si avvicinò a passi incerti per guardarmi meglio. Anche la vista doveva averla debole. Ammirò la mia barba unta di giallo, lunga fino al secondo bottone del cappotto, quello che mancava. Poi fu attratto dai miei sacchetti di plastica sotto la panchina. Erano due. Non ricordavo neanche io cosa ci fosse dentro. In uno, ero certo, la bottiglia vuota. Di lei, dentro di me, era svanito ogni calore. Era rimasto in bocca soltanto il sapore della sera prima e il ricordo dello stordimento liberatorio.

Mentre assaporavo la mia lingua impastata fra i denti gialli, lo stomaco mi ricordò la battaglia del nuovo giorno. Il passante, attratto dalla mia solitudine e convinto che ormai non lo avrei più mandato via, si accomodò accanto a me sulla panchina. Così vicini, mentre i nostri aliti si mescolavano nel vapore della nebbia, ci rendemmo conto di emanare un odore simile. Chissà, forse fra noi poteva nascere un’intesa.

I nostri sguardi erano intensi, complici di comuni destini e più espliciti del dialogo assente. Mi guardò mentre rovistavo frenetico nei sacchetti. Lo guardai mentre tremava ansioso alla vista dello straccio di lana che usavo per strofinarmi il viso al mattino.

Quella mattina non lo feci. Pensai che il suo cappotto, nonostante le apparenze, non fosse di buona qualità, e così mi venne spontaneo avvolgerlo con quella pezza sfilacciata. Mentre, con lo spago, fermavo intorno a lui il nuovo strato caldo, mi complimentai col mio istinto. Aveva smesso di tremare e mi fissava con riconoscenza. Mi ringraziò con un complimento umido.

Fu così che nacque la nostra grande amicizia. Quel giorno stesso notai che aveva una coda dello stesso colore del cappotto. La fece ondeggiare più volte durante il nostro primo pasto insieme. Avevamo scoperto un luogo di lusso: il deposito grigio sul retro di un ristorante dove vedevamo entrare passanti con cappotti bellissimi e puliti. Noi riuscimmo a ripulire la nostra razione e a far provviste appena in tempo. Trovammo anche brandelli di bistecca aggrappati ad un osso e un pezzo di dolce, proprio come nei giorni di festa. Poco dopo passò un grosso camion con i lampeggianti accesi, luminosi come i fili stellati che quel giorno si vedevano dappertutto. Svuotò il deposito e sparì.

Tornammo verso la nostra panchina nel parco. La nebbia non si era diradata e il mio compagno, per non perdermi, seguì i miei passi striscianti. Con ancora nel naso l’odore del deposito, mi riposai sulla panchina e da alcune bottiglie quasi vuote e odoranti di forte ingoiai residui di calore. Sull’abete mi parve di notare qualche pallina colorata. Nel periodo dei fili stellati nascono sempre quelle strane bacche. Però tutte le volte c’è qualcuno che le ruba perché poco dopo la fioritura scompaiono.

Lui era sempre lì davanti a me e si riscaldava muovendo velocemente la coda. Mi osservava molto interessato, incuriosito. Sembrava che volesse chiedermi qualcosa. Forse voleva sapere il mio nome.

Non lo ricordavo. Io lo chiamai Amico.

Gli parlo spesso. Lui non mi parla mai. Qualche volta ripete “bù!”. Penso che quello sia il mio nome, quello che lui mi ha dato.

 

Questo mio racconto intitolato Amici nella nebbia risale ormai a una decina di anni fa… il tempo vola… ed è stato pubblicato all’interno della terza edizione del Quaderno di Natale (Biblioteca del periodico «Presenza», Striano – NA, 1997).

Ho ricevuto una segnalazione che indico qua con piacere. Si tratta di un video relativo a un’iniziativa in tema con questo mio vecchio raccontino. Per vederlo e per avere informazioni in merito basta cliccare su La Linea Gialla.

Aggiornamenti in edicola

Il tempo è volato e un po’ di impegni mi hanno impedito di tenervi puntualmente aggiornati sulle uscite nella mia edicola. Mi rimetto in pari!

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BAZAR di dicembre è online con le mie nuove rubriche: 

PREMI KE VANNO, MOSTRE KE VENGONO Tra giochi di spazi e oggetti che si divertono a reinventarsi per giocare con noi…

CHI MOLTO PRATICA MOLTO IMPARA Tanti master e corsi speciali per tuffarsi nel nuovo anno col proposito di diventare ottimi venditori, costumisti, sommozzatori o… pittori.

 

Facile e immediato consultare anche gli arretrati. Su BAZAR di novembre vi segnalo due mie rubriche speciali:

NOSTALGIA DI MARE? Novembre ha nostalgia di mare e si regala una crociera alla scoperta di calde architetture, design appassionato e souvenir del sud.

DALL’ECO-INNOVAZIONE ALLA GASTRO-EMOZIONE Perché tutto sommato ambiente ed emozioni sono due concetti difficilmente scindibili…

 

E su Bazar di ottobre:

FRUTTA MULTIVITAMINICA Quando la frutta è… fonte di ispirazione per opere d’arte, gioco creativo per intuizioni artistiche, protagonista di nuovi progetti architettonici o forma estetica per nuove tecnologie.

TUTTI I MODI X ESPRIMERSI Scrivendo, ridendo, improvvisando, toccando…

 

Su Comunitazione ho pubblicato anche un’intervista molto… mediterranea!

ANIMAZIONE PER PASSIONE – Animatori o artisti? Lo chiediamo a Massimiliano Consoli, in arte Max, responsabile generale dell’Equipe Mediterraneo, agenzia di animazione e spettacolo. Intervista a un professionista della comunicazione finalizzata all’intrattenimento. Un’arte che non si improvvisa.

Buona lettura.

Bau

Il naso umido e nero

annusa fra le sbarre bastarde

se arriva un odore amico

che lo porti via con un sorriso.

Due occhietti vispi di speranza giovane

con l’ansia di allargare la visuale

si sporgono e si spalancano

mostrando sulle pupille

vecchie saracinesche tristi

come chiuse per ferie con rumore di ferraglia.

Da fuori sulla strada indifferente

giunge un frastuono di motori

e rabbrividisce d’abbandono

un altro compagno di solitudine.

La zampetta a pelo corto si allunga timida e curiosa

e anche le orecchie, morbide ma dritte

tentano di captare una voce calda

oltre il metallo freddo.

La coda sa che appena la voce parlerà

lei scodinzolerà allegra

le zampe saltelleranno giocose

e la bocca abbaierà per presentarsi.

Lo sguardo promette che sarà ubbidiente

che mangerà tutta la sua ciotola

e che il suo pelo, appena conoscerà quel tenero gesto

si accontenterà di una sola carezza al giorno

se oltre le sbarre bastarde

arriverà un amico di razza pura e fedele

che con un buon odore, un sorriso e una carezza

se lo porterà via.

 

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Questa mia poesia è stata pubblicata nel giugno 1999 nei Quaderni di Poesia – Il Calamaio Book Editore – Castel Maggiore (Bologna).