Note intense ed eleganti

A mio avviso Mia è l’unica che può rendere così intense le note e le parole di queste canzoni…

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Solo lei sapeva interpretarle così!

Anche quest’altra canzone non riesco ad immaginarla cantata da altre interpreti…

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Rilassiamoci con l’eleganza delle prossime note…

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… straordinaria canzone!

La raffinatezza prosegue ancora…

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… voce di cristallo… preziosa come un gioiello.

E infine… l’infinito…

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Grandi interpreti. Grazie!

Note incazzate

Serve un po’ di grinta? Voglia di sfogarsi?

Ok, forse Anouk può aiutarci, ma voi intanto alzate il volume.

Dunque… era già abbastanza incazzata 10 anni fa…

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Non basta?

E va bene, seconda dose! Ma l’avete alzato il volume?

Rieccola qua… è incazzata pure oggi…

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Se la posologia non basta ancora e vogliamo esagerare, ecco la terza dose…
… ancora un po’ di volume così è più efficace…
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Non so voi, ma io mi sento già molto meglio.

Free flying words

be37a5fea75cdf4fe5434929a74ead73.gifMi circondano parole sempre uguali

che non si accorgono di esserlo

e troppo presenti replicano la loro monotonia

come le sbarre di una gabbia

mi spengono come una scritta sulla sabbia

cancellata da un’ondata di apatia

e mi travolge la voglia di volare via.

Così quando il mio pensiero si emoziona

si astrae nell’altrove

e nascono le mie parole

ogni sillaba è una sensazione

che si accende di passione

e tutte volano via

in cerca delle tue

sempre nuove e sempre più belle

poesia che mi fa felice

come carezze sulla pelle.

Se mi emoziono tanto

di parole me ne nascono a migliaia

oppure solo alcune, poche, improvvisate

ma che ti arriveranno vibranti

e tutte ti cercano

stanno male se non ti trovano

o se tu non fai vibrare le tue

ma si consolano sapendo

che prima o poi ti incontreranno.

 

Se le mie parole incontrano le tue

le emozioni diventano Sogno

realizzano ciò per cui sono nate

in una dimensione nuova

in un’altra realtà

in un nuovo spazio senza tempo

e per questo le mie parole cercano le tue

per dimenticare la tristezza

perché desiderano bellezza

nella realtà di una parola

e nel sogno di una carezza.

Se sono le tue parole

a cercare le mie

non esiste più nostalgia

tristezza o malinconia

tutto svanisce in un sorriso

e accendi in me una luce

che alimenta emozioni nuove

e sento nascere parole sempre più belle

che ti cercheranno sulla pelle.

 

Quando le parole delle nostre emozioni

si cercano insieme

l’incontro è affascinante

è gioco divertente

diventa musica coinvolgente

un ballo conturbante

scintille di felicità

che accendono le nostre Stelle.

Quando dopo l’incontro

le nostre parole si lasciano e si allontanano

le mie soffrono di nostalgia

perché le tue sono troppo belle

e più sono belle

più mi mancano sulla pelle

perché ogni mia parola

ha bisogno della tua allegria

ecco il perché di tanta nostalgia.

Ma poi si riaccende l’attesa di un nuovo incontro

e l’emozione rinasce, cresce

e parole nuove

un’altra volta ti cercano

e per sentirsi libere

verso le tue volano.

Amore lucido

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Amore ti scrivo, sì, ti scrivo mia adorata

non ci crederai, ma ti scrivo.

Sono giorni che non riesco a vederti

e non resisto.

Mi manchi.

Molte ore buie ormai mi separano da te

e mi tengono rinchiuso qui

in questo ripostiglio opprimente

ed avverto come un buco nello stomaco.

Il mio cuore è consumato, trafitto al centro

e intorno mi sfilaccio tutto.

C’è quello nuovo che esce tutti i giorni

al posto mio

lindo, giovane e con le fibre integre.

Una triste gelosia mi rode ed è terribile non sapere

non vedere cosa provi quando lui ti lucida.

Non ti arrabbiare, mi fido di te

ma sei talmente bella, la più bella mattonella

che ricordo così levigata sotto le mie carezze.

Ero contento quando la polvere ti rendeva un po’ opaca

e qualche amica macchia si fermava su di te.

Il momento del nostro incontro si avvicinava

ed io bramavo dal desiderio di lucidarti.

babdd1e0f603b63339bc6d5be4577b16.jpgRiuscivamo a sentirci soli tu ed io

anche fra tante tue sorelle.

Sono recluso qua dentro

ma i miei pensieri sono incatenati a te.

Il ricordo dei tuoi bordi così ben squadrati

delle tue deliziose striature perlate

e della superficie tanto liscia che hai

non mi dà pace.

Chissà cosa avrai pensato non vedendomi più.

Mi tormento e voglio uscire da qui per rivederti,

dimostrarti non solo con le parole tutto il mio amore.

Cara, una di queste notti fuggirò di nascosto

e ti raggiungerò al solito posto sul pavimento.

Sarà bello unire di nuovo il nostro sentimento.

Lo farò presto. Non dimenticarmi. Aspettami!

Se era vero amore lucido quel fremito che ho sentito

sotto di me la prima volta, e poi di nuovo

e ancora l’ultima volta prima della prigionia,

allora fuggi con me.

1cc3a35268d2b7dce9d80b670b2e3bbc.jpgSarò il tuo straccio per la vita

e ti prometto

che ti luciderò sempre

col detersivo o senza

con l’acqua o con la cera

finchè spazzolone non ci separi.

Gabbiani

e82ab129b9041b21ce00294e92b3fc19.gifIncontro la notizia sull’articolo di un settimanale uscito il 14 luglio del 2006. La leggo. Mi colpisce. La rileggo più volte. Pare una favola. Invece è vera. Mi piace e la cosa non finisce lì, semplicemente chiudendo la rivista. È la storia di un piccolo gabbiano, un gabbianello di nome Gareth. Siamo in Inghilterra, la parte sud occidentale, in una cittadina del Devon. Qua un po’ di tempo fa Gareth, quando aveva un solo giorno di vita, è caduto dal suo nido, distrutto da una squadra di controllo ambientale dopo alcune lamentele sulla presenza della famiglia di gabbiani nella zona. Il piccolo è finito in una fattoria, ospite di un allevamento di galline e di paperi da cui ha ricevuto il suo imprinting imparando fin dai primissimi giorni di vita a comportarsi come loro. Gareth adesso ha due amici pennuti, il papero Clarke e la gallina Willie dai quali non si stacca mai tranne quando prende lezioni di volo dalla quindicenne figlia dei proprietari dell’allevamento, Katrina, una ragazzina esperta e tenace che gli insegna a volare per un’ora al giorno. Sì perché Gareth si comporta come i paperi e le galline e crede di essere uno di loro, dunque volare non rientra nelle sue attività e nei suoi piani. Crescendo con amici così diversi da lui non ha sviluppato nemmeno altri comportamenti tipici della sua specie. Infatti i gabbiani sono in genere piuttosto aggressivi fin da quando vivono nel nido e i più forti aggrediscono i fratelli più deboli per avere più cibo. In seguito tendono ad attaccare anche gli altri uccelli e in maniera particolare i piccoli di anatra. Sono molto opportunisti per quanto riguarda il cibo che riescono a procurarsi praticamente ovunque sia disponibile. Siamo abituati a immaginarli sul mare, dove più spesso possiamo ammirarli, ma si adattano anche a vivere in altri ambienti, per esempio in campagna o nei pressi di una discarica. Basta che ci sia cibo disponibile e non mangiano solo pesce perché sono onnivori.

5e3c99ca50b5f891c50a78f747a40eea.gifGareth non è aggressivo con gli altri pennuti e nemmeno con i più piccoli, e non vola perché non ha mai visto volare i suoi amici. E poi non ha bisogno di volare visto che non deve andare a cercarsi il cibo. Nella fattoria ce n’è in abbondanza e Gareth mangia ogni giorno senza dover faticare per nutrirsi. Spesso agita le ali perché lo vede fare dagli altri pennuti, ma non prova mai a spiccare il volo. Katrina si è messa in testa di insegnargli a volare, ma Gareth ha paura, anzi, dice Katrina che «è terrorizzato dall’altezza. Quando lo metto sul tetto del pollaio perché si involi urla e strepita finché non lo tiro giù. Ho provato allora a incoraggiarlo a fare qualche voletto sull’aia, ma al massimo svolazza per un paio di metri, poi torna a terra subito e se per caso atterra su qualcosa che sia a più di un metro dal suolo urla fino a quando non vado a soccorrerlo. Più o meno come farebbe una gallina, suo modello di riferimento».

La lettura di questa singolare storia ha fatto decollare il mio pensiero e ho immaginato che sarebbe fantastico poter convincere Gareth a vincere la paura e a farsi affascinare dal volo in una maniera un po’ insolita, un po’ impossibile per la verità,. ma volare con la fantasia non costa nulla e possiamo farlo. L’idea sarebbe di fargli leggere un paio di libri sull’argomento… ma sì, chissà cosa penserebbe leggendo il famoso racconto di Luis Sepúlveda intitolato Storia di una Gabbianella e del Gatto che le insegnò a volare. Nella storia una gabbiana, che ha le piume color argento proprio come Gareth, mentre si tuffa nel mare del Nord per cibarsi di aringhe, viene travolta da una macchia di petrolio. Riesce a fatica a spiccare il suo ultimo volo verso terra per finirlo atterrando, anzi sarebbe meglio dire cadendo, vicino a Zorba, un gatto del porto. Mentre sta morendo riesce a deporre un uovo e a farsi promettere dal nero micione che non solo non mangerà l’uovo, ma che se ne prenderà cura finché non nascerà il piccolo e che poi gli insegnerà a volare. Zorba la crede pazza, ma promette. Nasce Fortunata, una piccola gabbianella che scambia il gatto per la sua mamma. Si crede di essere un gatto, vive e cresce fra i suoi amici gatti del porto, ma lei è una gabbiana e Zorba ha promesso di insegnarle a volare perché quello è il suo destino, la sua grande opportunità, dunque lei volerà. Servirà l’aiuto di altri amici, come quello di Segretario, un gatto romano al servizio di Colonnello che è un’autorità fra i gatti del porto, colui che ha sempre il consiglio giusto da dare, poi di Sopravento, un gatto di mare che vive su una draga, e di Diderot, un gatto “enciclopedico” perché consulta sempre l’enciclopedia per sapere cosa c’è da fare in ogni occasione. Così Zorba e gli altri iniziano la non facile impresa di mantenere la promessa.

Leggere ciò che segue per Gareth sarebbe molto istruttivo: «“Il volo consiste nello spingere l’aria indietro e in basso. Ottimo! Sappiamo già qualcosa di importante” sussurrava Diderot con il naso infilato fra le pagine. “E perché devo volare?” strideva Fortunata con le ali ben strette al corpo. “Perché sei una gabbiana e i gabbiani volano” rispondeva Diderot. “Mi sembra terribile, terribile! che tu non lo sappia”. “Ma io non voglio volare. Non voglio nemmeno essere un gabbiano” replicava Fortunata. “Voglio essere un gatto e i gatti non volano” […] “Sei una gabbiana […] Ti vogliamo tutti bene, Fortunata. E ti vogliamo bene perché sei una gabbiana, una bella gabbiana. Non ti abbiamo contraddetto quando ti abbiamo sentito stridere che eri un gatto, perché ci lusinga che tu voglia essere come noi, ma sei diversa e ci piace che tu sia diversa. Non abbiamo potuto aiutare tua madre, ma te sì. Ti abbiamo protetta fin da quando sei uscita dall’uovo. Ti abbiamo dato tutto il nostro affetto senza alcuna intenzione di fare di te un gatto. Ti vogliamo gabbiana. Sentiamo che anche tu ci vuoi bene, che siamo tuoi amici, la tua famiglia, ed è bene tu sappia che con te abbiamo imparato qualcosa che ci riempie di orgoglio: abbiamo imparato ad apprezzare, a rispettare e ad amare un essere diverso. È molto facile accettare e amare chi è uguale a noi, ma con qualcuno che è diverso è molto difficile, e tu ci hai aiutato a farlo. Sei una gabbiana e devi seguire il tuo destino di gabbiana. Devi volare. Quando ci riuscirai, Fortunata, ti assicuro che sarai felice, e allora i tuoi sentimenti verso di noi e i nostri verso di te saranno più intensi e più belli, perché sarà l’affetto tra esseri completamente diversi”. “Volare mi fa paura” stridette Fortunata alzandosi. “Quando succederà, io sarò accanto a te” miagolò Zorba leccandole la testa. “L’ho promesso a tua madre” […] “Prima di iniziare rivediamo per l’ultima volta gli aspetti tecnici” miagolò Diderot. Dalla cima di una libreria Colonnello, Segretario, Zorba e Sopravento osservavano attentamente quello che accadeva in basso. Giù c’erano Fortunata, in piedi in fondo a un corridoio che avevano denominato pista di decollo, e Diderot, chino all’altro capo del corridoio sul dodicesimo volume, corrispondente alla lettera L, dell’enciclopedia. Il libro era aperto su una delle pagine dedicate a Leonardo da Vinci, dove si vedeva un curioso aggeggio battezzato ‘macchina per volare’ dal grande maestro italiano. “Per favore, prima di tutto controlliamo la stabilità dei punti d’appoggio a e b” ordinò Diderot. “Prova punti d’appoggio a e b” ripeté Fortunata saltando prima sulla zampa sinistra e poi sulla destra. “Perfetto. Ora controlleremo l’estensione dei punti c e d” miagolò Diderot, che si sentiva importante come un ingegnere della nasa. “Prova estensione punti c e d” obbedì Fortunata spiegando entrambe le ali. “Perfetto! Ripetiamo tutto daccapo” ordinò Diderot. “Per i baffi del rombo! Falla volare una buona volta!” esclamò Sopravento. “Le ricordo che sono il responsabile tecnico di volo!” ribatté Diderot. “Tutto deve essere adeguatamente controllato, altrimenti le conseguenze potrebbero essere terribili per Fortunata. Terribili!”. “Ha ragione. Lui sa quello che fa” commentò Segretario. […] Fortunata era lì, in procinto di tentare il suo primo volo, perché durante l’ultima settimana si erano verificati due episodi grazie ai quali i gatti avevano capito che la gabbiana voleva volare, anche se nascondeva molto bene il suo desiderio».

La gabbianella infatti un pomeriggio aveva ammirato dei gabbiani bellissimi che volavano elegantemente in cielo e senza accorgersene stava spiegando le ali. Poi un altro giorno Sopravento stava raccontando una delle sue storie di mare e parlando di uno stormo di gabbiani disse «Non c’è uccello che sappia volare meglio di un gabbiano» mentre Fortunata «lo ascoltava con gli occhi spalancati».

Ma torniamo a leggere del primo volo della gabbianella: «“Vuoi volare, signorina?” indagò Zorba. Fortunata li guardò a uno a uno prima di rispondere. “Sì. Per favore, insegnatemi a volare” […] Attendevano quel momento da molto tempo. Con tutta la pazienza che contraddistingue i gatti, avevano aspettato che la gabbianella comunicasse loro il suo desiderio di volare, perché grazie a un’ancestrale saggezza capivano che volare è una decisione molto personale. E il più felice di tutti era Diderot, che ormai aveva trovato i fondamenti del volo nel dodicesimo volume,  lettera L, dell’enciclopedia, e che perciò si era assunto l’incarico di dirigere le operazioni. “Pronta al decollo!” miagolò Diderot. “Pronta al decollo!” annunciò Fortunata. “Inizi a rollare sulla pista spingendo indietro il suolo con i punti di appoggio a e b” ordinò Diderot. Fortunata venne avanti, ma lentamente, come se avanzasse su pattini male oliati. “Maggiore velocità!” reclamò Diderot. La giovane gabbiana accelerò un po’. “Ora allunghi i punti c e d!” istruì Diderot. Fortunata spiegò le ali mentre avanzava. “Ora sollevi il punto e !” comandò Diderot. Fortunata alzò le piume della coda. “E ora muova dall’alto in basso i punti c e d spingendo l’aria verso terra, e contemporaneamente ritiri i punti a e b!” spiegò Diderot. Fortunata batté le ali, ritrasse le zampe, si innalzò di un paio di centimetri, e subito ricadde come un sacco di patate. Con un balzo i gatti scesero dalla libreria e corsero da lei. La trovarono con gli occhi pieni di lacrime. “Sono una buona a nulla! Sono una buona a nulla!” ripeteva sconsolata. “Non si vola mai al primo tentativo, ma ci riuscirai. Te lo prometto” miagolò Zorba leccandole la testa. Diderot cercava di trovare l’errore guardando e riguardando la macchina del volo di Leonardo. Fortunata tentò di spiccare il volo diciassette volte, e per diciassette volte finì a terra dopo essere riuscita a innalzarsi solo di pochi centimetri. Diderot, più magro del solito, si era strappato i baffi a uno a uno dopo i primi dodici fallimenti, e con tremanti miagolii cercava di scusarsi. “Non capisco. Ho esaminato la teoria del volo con grande cura, ho messo a confronto le istruzioni di Leonardo con tutto quello che è riportato nella parte dedicata all’aerodinamica, volume primo, lettera A, dell’enciclopedia, eppure non ci siamo riusciti. È terribile! Terribile!” […] Dopo l’ultimo insuccesso, Colonnello decise di sospendere gli esperimenti, perché la sua esperienza gli diceva che la gabbianella iniziava a perdere fiducia in se stessa, e questo era molto pericoloso se davvero voleva volare. “Forse non può farcela” dichiarò Segretario. “Forse ha vissuto troppo tempo con noi e ha perso la capacità di volare”. “Se si seguono le istruzioni tecniche e si rispettano le leggi dell’aerodinamica, volare è possibile. Non dimenticate che è tutto scritto nell’enciclopedia” ribatté Diderot. “Per la coda della razza!” esclamò Sopravento. “È una gabbiana e i gabbiani volano!”. “Deve volare. L’ho promesso a sua madre e a lei. Deve volare” ripeté Zorba. “E la tua promessa impegna anche tutti noi” ricordò Colonnello. “Riconosciamo che non siamo capaci di insegnarle a volare e che dobbiamo chiedere aiuto fuori dal mondo dei gatti” suggerì Zorba.».

Chiedono dunque aiuto a un umano, quello con cui vive Bubulina, una gatta bianca e nera che ama trascorrere il suo tempo in mezzo ai vasi di fiori su una terrazza, dove l’uomo «si piazzava davanti a una macchina da scrivere. Era un umano strano, che a volte rideva dopo aver letto quello che aveva appena scritto, e a volte appallottolava i fogli senza nemmeno guardarli. La sua terrazza era sempre inondata da una musica dolce e malinconica che faceva assopire Bubulina e suscitava profondi sospiri nei gatti che passavano da lì. “L’umano di Bubulina? Perché proprio lui?” chiese Colonnello. “Non lo so. Quell’umano mi ispira fiducia” ammise Zorba. “L’ho sentito leggere quello che scrive. Sono belle parole che rallegrano o rattristano, ma non mancano mai di provocare piacere e desiderio di continuare ad ascoltare”. “È un poeta! Si chiama poesia quello che fa. Sedicesimo volume, lettera P, dell’enciclopedia” dichiarò Diderot. “E cosa ti fa pensare che quell’umano conosca il volo?” volle sapere Segretario. “Forse non sa volare con ali d’uccello, ma ad ascoltarlo ho sempre pensato che voli con le parole” rispose Zorba».

Ci avviciniamo al momento cruciale della storia e secondo me Gareth a questo punto sarebbe davvero molto coinvolto e curioso di sapere come andrà a finire. L’umano accetta di aiutare la gabbianella a volare e legge a Zorba alcuni versi di una poesia dello scrittore spagnolo Bernardo Atxaga, intitolata I gabbiani. Ma il loro piccolo cuore / – lo stesso degli equilibristi – / per nulla sospira tanto / come per quella pioggia sciocca / che quasi sempre porta il vento / che quasi sempre porta il sole.

069766c550b324cd1ece7c5fa10e6591.jpgDi notte accompagna quindi Zorba e Fortunata in cima a un campanile, il campanile di San Michele, in una notte piovosa, ad Amburgo. «“Ho paura” stridette Fortunata. “Ma vuoi volare, vero?” miagolò Zorba. Dal campanile di San Michele si vedeva tutta la città. La pioggia avvolgeva la torre della televisione, e al porto le gru sembravano animali in riposo. […] “Ho paura! Mamma!” stridette Fortunata. Zorba saltò sulla balaustra che girava attorno al campanile. In basso le auto sembravano insetti dagli occhi brillanti. L’umano prese la gabbiana tra le mani. “No! Ho paura! Zorba! Zorba!” stridette Fortunata beccando le mani dell’uomo. “Aspetta. Posala sulla balaustra” miagolò Zorba. “Non avevo intenzione di buttarla giù” disse l’umano. “Ora volerai, Fortunata. Respira. Senti la pioggia. È acqua. Nella tua vita avrai molti motivi per essere felice, uno di questi si chiama acqua, un altro si chiama vento, un altro ancora si chiama sole e arriva sempre come una ricompensa dopo la pioggia. Senti la pioggia. Apri le ali” miagolò Zorba. La gabbianella spiegò le ali. I riflettori la inondavano di luce e la pioggia le copriva di perle le piume. L’umano e il gatto la videro sollevare la testa con gli occhi chiusi. “La pioggia. L’acqua. Mi piace!” stridette. “Ora volerai” miagolò Zorba. “Ti voglio bene. Sei un gatto molto buono” stridette Fortunata avvicinandosi al bordo della balaustra. “Ora volerai. Il cielo sarà tutto tuo” miagolò Zorba. “Non ti dimenticherò mai. E neppure gli altri gatti” stridette lei già con metà delle zampe fuori dalla balaustra, perché come dicevano i versi di Atxaga, il suo piccolo cuore era lo stesso degli equilibristi. “Vola!” miagolò Zorba allungando una zampa e toccandola appena. Fortunata scomparve alla vista, e l’umano e il gatto temettero il peggio. Era caduta giù come un sasso. Col fiato sospeso si affacciarono alla balaustra, e allora la videro che batteva le ali sorvolando il parcheggio, e poi seguirono il suo volo in alto, molto più in alto della banderuola dorata che corona la singolare bellezza di San Michele. Fortunata volava solitaria nella notte amburghese. Si allontanava  battendo le ali con energia fino a sorvolare le gru del porto, gli alberi delle barche, e subito dopo tornava indietro planando, girando più volte attorno al campanile della chiesa. “Volo! Zorba! So volare!” strideva euforica dal vasto cielo grigio. L’umano accarezzò il dorso del gatto. “Bene, gatto. Ci siamo riusciti” disse sospirando. “Sì, sull’orlo del baratro ha capito la cosa più importante” miagolò Zorba. “Ah sì? E cosa ha capito?” chiese l’umano. “Che vola solo chi osa farlo” miagolò Zorba. “Immagino che adesso tu preferisca rimanere solo. Ti aspetto giù” lo salutò l’umano. Zorba rimase a contemplarla finchè non seppe se erano gocce di pioggia o lacrime ad annebbiare i suoi occhi gialli di gatto nero grande e grosso, di gatto buono, di gatto nobile, di gatto del porto.»

ee9ce5bd41e8994b0b729d6bb89b3844.jpgAh, se Gareth leggesse questa storia! Sono sicura che vincerebbe la paura e proverebbe a volare senza perdere un solo attimo a imitare ancora galline e papere. E poi… e poi dopo, una volta imparato a volare, sarebbe pronto per leggere un’altra storia di gabbiani scritta da Richard Bach che oltre che scrittore è anche pilota dell’Aeronautica Militare statunitense e pratica il volo acrobatico. Negli anni Settanta ha scritto un libro intitolato Il gabbiano Jonathan Livingston, che viene così presentato: «Jonathan Livingston è un gabbiano che abbandona la massa dei suoi simili per i quali il volare non è che un semplice e goffo mezzo per procurarsi il cibo e impara a eseguire il volo come atto di abilità e intelligenza, nobile ricerca di perfezione e fonte di gioia. Diventa così un simbolo, la guida ideale di chi prova un piacere particolare nel far bene le cose cui si dedica, di chi ha la forza interiore di seguire le sue convinzioni, di chi cerca il significato della propria esistenza liberandosi dai pregiudizi del gruppo e dall’ottusità delle convenzioni sociali. E con Jonathan il lettore viene trascinato in un’entusiasmante avventura di volo, di aria pura, di libertà».

Figuriamoci poi se il lettore ha le ali come Gareth! Potrebbe davvero non perdersi l’occasione splendida che ha di spiccare il volo come la gabbianella e di appassionarsi alla perfezione come il gabbiano Jonathan per il quale il volo è bellezza, libertà, un modo per elevarsi e distinguersi dalla banalità della massa. È straordinaria la storia di questo gabbiano, un racconto breve, molto semplice nello stile, ma intenso, e dedicato dall’autore «al vero Gabbiano Jonathan che vive nel profondo di noi tutti». Inizia così: «Era di primo mattino e il sole appena sorto luccicava tremolando sulle scaglie del mare appena increspato. A un miglio dalla costa un peschereccio arrancava verso largo. E fu data la voce allo Stormo. E in men che non si dica tutto lo Stormo Buonappetito si adunò, si diedero a giostrare ed accanirsi per beccare qualcosa da mangiare. Cominciava così una nuova dura giornata. Ma lontano di là solo soletto, lontano dalla costa e dalla barca, un gabbiano si stava allenando per suo conto: era il gabbiano Jonathan Livingston. Si trovava a una trentina di metri d’altezza: distese le zampette palmate, aderse il becco, si tese in uno sforzo doloroso per imprimere alle ali una torsione tale da consentirgli di volare lento. E infatti rallentò tanto che il vento divenne un fruscio lieve intorno a lui, tanto che il mare ristava immoto sotto le sue ali. Strinse gli occhi, si concentrò intensamente, trattenne il fiato, compì ancora uno sforzo per accrescere solo… d’un paio… di centimetri… quella… penosa torsione e… D’un tratto gli si arruffano le penne, entra in stallo e precipita giù. I gabbiani, lo sapete anche voi, non vacillano, non stallano mai. Stallare, scomporsi in volo, per loro è una vergogna, è un disonore. Ma il gabbiano Jonathan Livingston – che faccia tosta, eccolo là che ci riprova ancora, tende e torce le ali per aumentarne la superficie, vibra tutto nello sforzo e patapunf stalla di nuovo – no, non era un uccello come tanti.  La maggior parte dei gabbiani non si danno la pena di apprendere, del volo, altro che le nozioni elementari: gli basta arrivare dalla costa a dov’è il cibo e poi tornare a casa. Per la maggior parte dei gabbiani, volare non conta, conta mangiare. A quel gabbiano lì, invece, non importava tanto procurarsi il cibo, quanto volare. Più d’ogni altra cosa al mondo, a Jonathan Livingston piaceva librarsi nel cielo. Ma a sue spese scoprì che, a pensarla in quel modo, non è facile poi trovare amici, fra gli altri uccelli. E anche i suoi genitori erano afflitti a vederlo così: che passava giornate intere tutto solo, dietro i suoi esperimenti, quei suoi voli planati a bassa quota, provando e riprovando. Non sapeva spiegarsi perché, ad esempio, quando volava basso, sull’acqua, a un’altezza inferiore alla metà della sua apertura alare, riusciva a sostenersi più a lungo nell’aria e con meno fatica. Concludeva la planata, lui, mica con quel solito tuffo a zampingiù nel mare, bensì con una lunga scivolata liscia liscia, sfiorando la superficie con le gambe raccolte contro il corpo, in un tutto aerodinamico. […] Eccolo a circa trecento metri d’altezza che, battendo le ali a più non posso, si butta in picchiata: una picchiata vertiginosa verso le onde. A questo punto capisce perché ai gabbiani questa manovra, a tutta velocità, non può riuscire. In appena sei secondi, uno tocca le settanta miglia all’ora: velocità alla quale l’ala d’un uccello non è più stabile, nella fase ascendente. Ci si era provato più volte, ma sempre con lo stesso risultato. Pur mettendoci il massimo impegno, perdeva sempre il controllo, a una velocità così elevata. Saliva a quota trecento. Avanti dritto, a tutta birra, prima. Poi scivolata d’ala. E giù in picchiata. Niente! Ogni santa volta l’ala sinistra andava in stallo nella fase ascendente, lui veniva spostato con violenza a mano manca, stallava con la destra per cercare di riprendersi e, trac, cadeva in vite. Non riusciva a metterci sufficiente attenzione, al momento in cui dava quel colpo d’ala ascendente. Dieci volte ci aveva provato e ogni volta, appena toccate le settanta miglia orarie, si trasformava in una trottola di penne e, perduto il dominio dell’aria, tonfava nell’acqua. Il trucco – gli balenò alla fine in mente, quand’era ormai fradicio – consiste nel tenere le ali ferme. Sì: remeggiare finché non sei sulle cinquanta miglia, poi tener salde le ali. Salì a quota seicento e riprovò. Si buttò in picchiata, becco diritto in giù, ali tutte aperte, appena toccate le cinquanta, spiegate e ferme. Occorreva una forza tremenda, ma il trucco riusciva. Nello spazio di dieci secondi, era sfrecciato a novanta miglia l’ora. Jonathan aveva stabilito il record mondiale di velocità dei gabbiani! Ma il suo record fu di breve durata. Nell’istante in cui s’accinse a risalire, nell’istante in cui mutò l’angolazione delle ali, perse disastrosamente il controllo, frullò e divenne un turbinio di penne. Come prima: solo che, a novanta, fu un effetto-dinamite. E Jonathan esplose in aria. Piombò in mare. In un  mare duro come il granito. Quando tornò in sé, era buio da un bel pezzo. Galleggiava cullato dalla maretta, sulla scia del chiardiluna. Si sentiva le ali sbrindellate pesanti come piombo, ma più ancora gli pesava il fallimento. […] A fatica si tirò fuori dall’acqua e si diresse mestamente verso terra. Meno male che aveva imparato a volare a bassa quota, il che gli consentiva un risparmio di energie».

1aa91cfc4ce3e9386929756a2bc9920f.jpgUn po’ scoraggiato, Jonathan vola nella notte col proposito di tornare ad essere un gabbiano come tutti gli altri, ma gli pare di udire una voce: «Pòsati! I gabbiani non volano al buio! Se fossi nato anche tu per volare di notte, avresti gli occhi come una civetta! Una bussola avresti, per cervello! Avresti l’ala corta del falcone! Librato nelle tenebre, lassù, il gabbiano Jonathan, a questo punto, batté gli occhi. La fatica svanì, svanì il dolore, e anche i buoni propositi svanirono. L’ala corta. Le ali corte di un falco! Ecco la soluzione. Che sciocco a non averci pensato prima! Quello che occorre è solo un’ala corta: e, allora, basterà che io tenga raccolte le mie ali, che le tenga ritirate, quasi del tutto, e che ne adopri soltanto le estremità. Ali corte! Si portò subito a seicento metri di quota, sopra il mare di pece e, senza star lì a pensare un momento che poteva fallire, anche morire, portò le ali ad aderire saldamente al corpo, lasciando tese al vento solo le strette estremità di esse, a mo’ di alettoni, e si gettò in picchiata. Il vento gli intronava nella testa con un fragore spaventoso. Settanta miglia all’ora, novanta, centoventi, e ancora, ancora. Più forte. A centoquaranta miglia l’ora la tensione dell’ala era inferiore a quella di prima a settanta, e bastò una leggerissima torsione per uscire di picchiata e saettare verso il cielo alto, grigio bolide sotto il chiardiluna. Raggrinzì gli occhi a fessura, nel vento, e il suo cuore esultava. Centoquaranta miglia all’ora! Senza dare una sbandata! E se mi tuffo non da cinquecento ma da mille metri e più, chissà a che velocità… […] Al levar del sole, Jonathan era di nuovo là che si allenava. Visti da mille e più metri, i pescherecci sembravano scagliuzze nella glauca distesa delle acque, lo Stormo Buonappetito come un indistinto nugolo di volteggianti atomi di polvere. Lui si sentiva vivo come non mai, e fremente di gioia, fiero di aver domato la paura. Poi, senza indugio alcuno, si attillò le ali al corpo, protendendo solo i sòmmoli angolati, e si scagliò dall’alto a capofitto. Percorsi circa trecento metri, aveva già raggiunto la velocità-limite: il vento adesso era una solida barriera pulsante, da sfondare, non poteva darci dentro più forte. Stava volando a perpendicolo a ben duecento e quattordici miglia all’ora. Deglutì. Se gli si spalancano le ali, addio, di lui non rimarrà che un milione di pezzetti di gabbiano. Ma la velocità era potenza, era gioia, era bellezza. A quota trecento iniziò la richiamata: l’estremità sporgente delle ali tagliava il vento con un fruscio sordo e pareva prossima a schiantarsi, lui era una meteora e la barca e lo sciame dei gabbiani, sul piano inclinato del mare, apparivano sempre più grossi, sulla sua traiettoria di volo. Non poteva fermarsi. E nemmeno di virare era capace, a quella velocità. Collisione uguale morte. Istantanea. Allora chiuse gli occhi. Così accadde che, quella mattina, poco dopo il levar del sole, il gabbiano Jonathan Livingston passò come una saetta nel bel mezzo dello Stormo Buonappetito, a duecento e dodici miglia orarie, a occhi chiusi, proiettile pennuto e sibilante. Il Gabbiano della Fortuna gli fu benigno, per quella volta. Non ci furono morti. Quando cominciò a riprendere quota, filava ancora alla bellezza di centosessanta miglia all’ora. Quand’ebbe rallentato sulle venti, e finalmente riapri le ali, il peschereccio era una mollica laggiù, sul mare, a più di mille metri sotto di lui. Ebbe un moto di trionfo. Aveva toccato il limite estremo della velocità! Un gabbiano a duecentoquattordici miglia orarie! Era un primato che segnava una data, era il momento più fulgido nella storia dello Stormo, e per il gabbiano Jonathan da quel momento si dischiudevano orizzonti nuovi. Si portò a un’altezza di duemila e cinquecento metri – nella plaga remota prescelta per le sue esercitazioni – e, retratte le ali per un nuovo spettacoloso tuffo, si accinse senza porre tempo in mezzo a imparare la virata. Una singola penna del sòmmolo – scoprì – mossa d’una frazione di centimetro, permette di effettuare un’ampia scorrevole virata, a folle velocità. Prima di arrivarci, però, scoprì a sue spese che, a muoverne più d’una delle penne, schizzi via a vortice come una palla di fucile… Sicché Jonathan fu anche il primo uccello che eseguì voli acrobatici. Non perse tempo, quel giorno, a parlare con gli altri gabbiani, ma seguitò a volare solitario fin a dopo il tramonto. E scoprì la gran volta, la vite orizzontale, la virata imperiale, la scampanata, la gran volta rovesciata. Quando il gabbiano Jonathan tornò presso lo Stormo, sulla spiaggia, era ormai notte fonda. La testa gli girava, era stanchissimo. Tuttavia, tanto era allegro che compì una gran volta e una fulminea vite orizzontale prima di toccar terra. Quando lo sapranno – pensava –, quando sapranno delle Nuove Prospettive da me aperte, impazziranno di gioia. D’ora in poi vivere qui sarà più vario e interessante. Altro che far la spola tutto il giorno, altro che la monotonia del tran-tran quotidiano sulla scia dei battelli da pesca! Noi avremo una nuova ragione di vita. Ci solleveremo dalle tenebre dell’ignoranza, ci accorgeremo d’essere creature di grande intelligenza e abilità. Saremo liberi! Impareremo a volare!».                       

1279264c1512f2d0256377e6bd723924.jpgCon grande forza di volontà e coraggio Jonathan riesce a realizzare il suo sogno e con entusiasmo vuole trasmettere anche agli altri la straordinaria bellezza di ciò che ha scoperto. Ma le cose non andranno così e Jonathan sarà cacciato dallo Stormo a causa della sua «temeraria e irresponsabile condotta» e per essere andato contro la tradizione dei gabbiani. Senza dargli modo di spiegarsi viene mandato in esilio sulle Scogliere Remote.

Una vita solitaria alla quale viene condannato dall’Assemblea Generale che impassibile sentenzia: «“…affinché mediti e impari che l’incosciente temerarietà non può dare alcun frutto. Tutto ci è ignoto, e tutto della vita è imperscrutabile, tranne che siamo al mondo per mangiare, e campare il più a lungo possibile.” […] “Non abbiamo più nulla in comune, noi e te” intonarono in coro i gabbiani, e, con fare solenne, sordi alle sue proteste, gli voltarono tutti la schiena. E il gabbiano Jonathan visse il resto dei suoi giorni esule e solo. Volò oltre le Scogliere Remote, ben oltre. Il suo maggiore dolore non era la solitudine, era che gli altri gabbiani si rifiutassero di credere e aspirare alla gloria del volo. Si rifiutavano di aprire gli occhi per vedere. Ogni giorno lui apprendeva nuove cose. Imparò che, venendo giù in picchiata a tutta birra, puoi infilarti sott’acqua e acchiappare pesci più prelibati, quelli che nuotano in branchi tre metri sotto la superficie: non aveva più bisogno di battelli da pesca e di pane raffermo, lui, per sopravvivere. Imparò a dormire sospeso a mezz’aria, dopo aver stabilito alla sera la sua rotta, nel letto della corrente d’un vento fuoricosta, e coprire così un centinaio di miglia dal tramonto all’alba. Con uguale padronanza ora volava attraverso fitti banchi di nebbia sull’oceano, o sennò si portava al di sopra di essi, dove il cielo era limpido e il sole abbagliava… mentre gli altri gabbiani, con quel tempo, se ne stavano appollaiati in terraferma, mugugnando per la pioggia e la foschia. Imparò a sfruttare i venti d’alta quota, e portarsi nell’entroterra, per un bel tratto, e far pranzo con insetti saporiti. Quel che aveva sperato per lo Stormo, se lo godeva adesso da sé solo. Egli imparò a volare, e non si rammaricava per il prezzo che aveva dovuto pagare. Scoprì ch’erano la noia e la paura e la rabbia a rendere così breve la vita d’un gabbiano. Ma, con l’animo sgombro da esse, lui, per lui, visse contento, e visse molto a lungo».

67470141f223dce5c874070950cbeacc.jpgPoi Jonathan volò ancora più in alto nel cielo, fino a raggiungere nuove dimensioni, altri livelli di volo, nuovi traguardi da raggiungere con un nuovo corpo e nuove ali che rendevano meno faticoso e molto più veloce il suo volare. In quel nuovo mondo chiese agli altri gabbiani che vi trovò se quello fosse il paradiso, e il più anziano gli rispose: «“Non si finisce mai d’imparare Jonathan”. “Ma allora, dopo qui, cosa ci aspetta? Dove andremo? E un posto come il paradiso c’è o non c’è?”. “No, Jonathan, un posto come quello, no, non c’è. Il paradiso non è mica un luogo. Non si trova nello spazio, e neanche nel tempo. Il paradiso è essere perfetti.” Tacque un minuto e poi: “Tu sei uno che vola velocissimo, nevvero?”. “Mi… mi piace andare forte” disse Jonathan, preso alla sprovvista, ma fiero che l’Anziano se ne fosse accorto. “Raggiungerai il paradiso, allora, quando avrai raggiunto la velocità perfetta. Il che non significa mille miglia all’ora, né un milione di miglia, e neanche vuol dire volare alla velocità della luce. Perché qualsiasi numero, vedi, è un limite, mentre la perfezione non ha limiti. Velocità perfetta, figlio mio, vuol dire solo esserci, esser là”».                  

ed00ac4197f85e4a522e68eeba9c0e4e.jpgDunque Jonathan passò del tempo, o qualcosa che sembrava essere tempo, a fare incredibili progressi a volare in quel nuovo modo, concentrandosi col pensiero per trasferirsi in un altro spazio e in un altro tempo finché ebbe la consapevolezza di non avere più un corpo di gabbiano, «di non essere di carne e ossa e penne, ma un’idea: senza limiti né limitazioni, una perfetta idea di libertà».

Tornando al nostro timoroso e pigro gabbianello Gareth, cosa potremmo augurargli? L’impresa di imparare a leggere forse è davvero troppo ardua, direi impossibile, almeno finché si tratta di libri di carta scritti dagli umani. Ma chissà, magari un giorno, all’improvviso, vedrà volare un suo simile e supererà la paura come la gabbianella Fortunata, e poi potrebbe ammirare il volo di un gabbiano speciale come Jonathan, e forse per lui sarà come leggere qualcosa nel cielo, un libro scritto nell’aria da ali perfette. E allora gli auguriamo di capirlo, di rimanere affascinato dalla bellezza e dalla poesia dello sfogliare di quelle pagine e di imparare a volare nella luce e nel calore del sole, nell’aria fresca, nella pioggia, nel vento… di volare bene, veloce, sempre più in alto, libero e felice. Coraggio Gareth! Vola!

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I brani citati nel testo sono tratti da:

Cristina Nadotti, Il gabbianello che credeva di essere papero, in «Il Venerdì di Repubblica», n° 956, 14.7.2006, pp. 76-79

Luis Sepúlveda, Storia di una Gabbianella e del Gatto che le insegnò a volare, Salani Editore, 1998  

Richard Bach, Il gabbiano Jonathan Livingston, Biblioteca Universale Rizzoli, 2004

Inoltre, anche come accompagnamento musicale alla lettura, vi segnalo:

www.ilvolodeigabbiani.itwww.aurorablu.it/libri/gabbiano_jonathan.htm

E-mail

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Vorrei scrivermi a penna su un foglio

vestirmi di parole belle 

prendere una busta in partenza

col francobollo e col timbro.

Vorrei provare per una volta

l’ebbrezza di imbucarmi

di viaggiare qualche giorno

attraverso luoghi e paesaggi

per vedere come è fatto il mondo.

Vorrei fare un giro in bici col postino

arrivare e riposarmi

nella cassetta della posta.

Vorrei sorprendere qualcuno che non mi aspetta

qualcuno che aprendo la mia busta

sia contento di vedermi

accarezzi il mio foglio

legga lentamente le mie parole.

Vorrei, vorrei…. ma sto sfrecciando nella rete

affollata da tutti, tanti, troppi

che corriamo così forte

da non riuscire a vederci

e sembriamo nessuno.

Vorrei, ma tra un istante arriverò

in un luogo elettronico

e dopo

in un attimo

se le mie parole

entro pochi secondi

non interesseranno

un clic le trascinerà

insieme a me

in un cestino

un cestino virtuale.

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Felicità

8628698b48462fab47030a8ac45a9b14.jpgFelicità, ti ho incontrata bambina

ma poi nel tempo ti ho assaggiata

a piccoli morsi senza sentire bene il tuo sapore

forse eri solo una pausa di spensieratezza

e mi venivi a trovare ogni tanto per consolarmi.

Poi ho sentito le tue parole volare nell’aria

ed ho capito che eri tu

ma non conoscevo la tua immagine.

Adesso ti vedo, sei qui davanti a me

sei splendida e autentica e mi sorridi

finalmente ti ho trovata.

Ti corro incontro anche se un vetro ci separa

ma è trasparente e sottile

e corro da te incosciente e ignara

prima di sbattere con violenza contro quel vetro

che sottile non è e si trasforma in un muro…

cemento armato addosso a me.

La mia corsa si ferma e tocco il muro con le mani.

Al di là non ti vedo più

solo grigio cemento

duro e freddo

che non si sposta.

Mi appoggio a quel muro

cerco un’apertura, una porta, una finestra

ma non c’è nulla

ed una corda legata a me mi trascina via.

Mi lascio cadere

negli occhi ho un bruciore che cola

e si spegne in una goccia

nel cuore una lama

ma lui non smette di battere

e non mi libera dal dolore.

Solo l’anima mia stanca vede una luce

piccola fiamma che resterà accesa

nel ricordo di averti vista, felicità,

per una volta, un attimo già estinto,

un solo istante di sogno infinito

ma eri tu, quella vera

quella che non si dimentica.

Nel tempo e nello spazio

la mia anima si riposerà

alla luce del tuo piccolo lume

che per sempre sarà amico o fratello

e accenderà un sorriso.

Volo I-2029 pronto al decollo. Precedenza assoluta.

A cominciare dal titolo, che è lo stesso che ho voluto dare a questo post, mi ha colpita un articolo che ho letto sul n° 555 del 30.6.2007 del settimanale cartaceo «D-La Repubblica delle Donne» consultabile anche in rete da pag. 30 a pag. 38 su http://periodici.repubblica.it/d/?num=555.  

Citandone per correttezza la fonte e la paternità (testo di Fabrizio Ravelli e foto di Massimo Berruti), lo riporto qua sul mio blog. Forse avrei dovuto inserirlo nella categoria L’edicola di Riccarda, ma visto che parla di volo ho preferito ospitarlo qua.

 

Nelle prime pagine il testo si fa un po’ attendere… forse perché è bene prima meditare su alcune immagini… e l’articolo inizia mostrando questa foto…

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Il testo della didascalia è il seguente: «31° Stormo – Non trasportano soltanto le massime autorità di Stato (e il Papa). Sono sempre in allerta. Per chi ha bisogno di un trapianto. Per chi è in pericolo di vita. Un giorno (e una notte) in viaggio con i soldati volanti della nostra Aeronautica. Tra civili in barella, prese per l’ossigeno, culle termiche. Umanità e compassione».

 

Poi prosegue mostrando altre immagini in bianco e nero…

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Due le didascalie. A sinistra: «Missioni umanitarie, emergenze sanitarie: si vola a qualunque ora del giorno e della notte. In Italia e all’estero. Qui sopra, uno degli aerei del 31° Stormo in fase di atterraggio. Nella pagina a fianco, il capo equipaggio, capitano Fabio Caputo, in attesa del trasbordo di un paziente dall’ambulanza». A destra: «Anche l’aereo del governo italiano che sta per arrivare da Ciampino si fa da parte. E lascia passare il Falcon 50. Per una volta la signora Rosa di San Giovanni Rotondo, diretta a Verona dove l’attende un nuovo fegato, è più importante del signor ministro».

 

E un’altra foto molto toccante…

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… con queste didascalie: «Sulle barelle viaggiano uomini privi di conoscenza. Donne che non hanno mai volato in vita loro. Bambini minuscoli e trasparenti. E neonati chiusi in incubatrici. I soldati volanti non si adeguano a questo mestiere per necessità: ne sono entusiasti. Una piccola sofferente di cuore attende il decollo del Falcon. Il lavoro del 31° Stormo si alimenta di contrasti. Monitor fantascientifici e poveri fagotti di biancheria. Marescialli in tuta di volo tappezzata di stemmi che porgono un bicchier d’acqua. Corpi atletici addestrati, corpi piegati dalla malattia».

 

E ancora altre immagini “operative”…

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Descritte così: «In mezz’ora il volo è pronto al decollo. A gestire l’attività, un software: il computer manda sms sui telefoni degli uomini a disposizione. Si preparano i piani di volo, si ritirano i rapporti meteo. Ore 15.15. Doppio incarico. Un paziente Olbia-Pisa. E un Ipv Foggia-Linate. Ipv significa “imminente pericolo di vita”. Cliccano i nominativi degli equipaggi a disposizione. Il computer manda sms ai loro telefoni. Riceve conferma. Alle 17 si decolla».

 

Dopo aver meditato sulle foto inizia il testo che riporto integralmente qua di seguito.

 

La signora Rosa, con la cintura di sicurezza che stringe la vestaglia, ha gli occhi sofferenti di chi non vuol mollare. Questo è l’ultimo tentativo. Il Falcon 50 fila a 900 chilometri orari verso Verona. Non c’è mai tempo da perdere, su questi voli. Lei stringe i braccioli rivestiti in pelle e con la testa indica i militari dell’equipaggio: «Sono bravi, loro». Pronuncia una frase che potrebbe figurare sullo stemma del reparto: «Se decidono, non conoscono ostacoli». L’assistente di volo, il maresciallo Cosimo Picazio, sorride. Le sta intorno con premura, l’aiuta a sollevare i piedi, sistema le ciabatte sulla moquette.

Non risparmiano i sorrisi e i gesti affettuosi, questi soldati. Ce n’è bisogno, quando si vola verso una possibile salvezza, con un carico di sofferenza e speranza, con i minuti contati.

La signora Rosa vola verso un trapianto di fegato, su a Verona. L’hanno caricata in ambulanza a San Giovanni Rotondo, all’ospedale Casa Sollievo della Sofferenza, quello voluto da Padre Pio. Di corsa fino a Foggia, aeroporto civile “Gino Lisa”. Ha voluto scendere dalla barella, salire con le sue gambe la scaletta del Falcon: «Sì, ce la faccio da sola». La figlia Valentina che le dava il braccio. Il medico Pasquale Conoscitore con la cartella degli esami. Il capitano Luigi Tancredi ha girato la prua verso la pista di decollo e ha dato potenza ai tre motori jet.

Non molti sanno che a Ciampino c’è il 31° Stormo dell’Aeronautica Militare, e che il lavoro dei suoi uomini non è soltanto quello di trasportare in giro per il mondo le massime autorità di Stato e anche il Papa. Che già sarebbe un compito parecchio delicato, e riservato. Ma ci sono anche i voli di emergenza sanitaria, le missioni di soccorso come questa Roma-Foggia-Verona. Trasporto di cittadini in pericolo di vita o di organi per trapianti, recupero di militari feriti all’estero. Voli-ambulanza, precedenza assoluta. Anche l’aereo di Stato che sta per decollare da Ciampino si fa da parte, lascia passare il Falcon 50. Per una volta, la signora Rosa Pisicchio è più importante del signor ministro. Per questi voli a Ciampino c’è sempre un aereo pronto, 24 ore su 24, 365 giorni all’anno. Un Falcon 50, tre motori jet, nove posti a sedere, può montare una o due barelle, sette ore di autonomia. O un Falcon 900 Easy, più moderno e capiente, con un sollevatore per barelle, prese per ossigeno e per culle termiche, maggiore autonomia di volo. «Il meglio che c’è in circolazione al mondo, per questi impieghi», riassume il maggiore Alessandro Tortorella, responsabile del Boc (il centro operativo di base). Che spiega anche come vengono disposti i voli sanitari di emergenza: «L’ospedale segnala il caso alla prefettura, che chiama l’ufficio voli della presidenza del Consiglio, che a sua volta trasmette la richiesta allo Stato maggiore dell’Aeronautica. Sembra complicato, ma avviene in pochi minuti».

Ci sono sempre due equipaggi a disposizione, pronti a partire con un preavviso massimo di due ore. A volte per missioni complicate: «Nel marzo scorso siamo andati fino a Sydney, in Australia, a prendere un uomo gravissimo», racconta il capitano Federico Merola. «Tre equipaggi a staffetta, soste solo per rifornimento, 44 ore di volo fra andata e ritorno. Un’altra volta a Kinshasa, in Congo, e una volta in Honduras». Spesso, il preavviso è molto più breve. Come stavolta, per questo volo verso Foggia. La chiamata arriva alle 12.20, per partire 30 minuti dopo. Il maresciallo Marcello Nobili, tecnico di volo, corre a ispezionare l’aereo pronto in pista. I due piloti – il maggiore Tortorella e il capitano Tancredi – pianificano il volo, consultano il meteo. Il Boc tiene i contatti con gli aeroporti. Quello civile di Foggia ha una pista corta, solo 1.400 metri: «Se possono innalzare subito il livello di assistenza antincendio bene, sennò dobbiamo atterrare altrove». In mezz’ora il volo India 2029 è pronto al decollo. E questa è già una gran bella cosa da vedere. Uomini molto qualificati ed esperti, efficienza militare collaudata, affiatamento, velocità di esecuzione. A qualunque ora del giorno e della notte. I mezzi tecnici e la manutenzione al massimo livello (gli uffici invece piuttosto malconci, i fondi scarseggiano). Ma lo spettacolo migliore è vedere come questa macchina militare si piega a un uso civile così delicato, come questi soldati volanti adattano la loro efficienza rapida e professionale al trasporto di passeggeri che hanno bisogno anche di altro: umanità, gentilezza, compassione. È un mondo maschile che non teme di mostrare delicatezza.

Tutto questo lavoro si alimenta e si arricchisce di contrasti. Aerei tecnologicamente avanzati e uffici disadorni. Poltrone in pelle, moquette, finta radica, maniglie dorate, il look obbligatorio di questi jet executive. E vestaglie, ciabatte, pigiami, pannolini, mutande, lenzuola verdi ciancicate: il look corrente della sofferenza. La corsa quotidiana contro il tempo, e i dieci minuti che un malato può impiegare a salire con fatica la scaletta. Marescialli in tuta di volo tappezzata di stemmi che porgono un bicchier d’acqua o una tazza di tè. Monitor fantascientifici e poveri fagotti di biancheria. Corpi atletici e addestrati, corpi piegati dalla malattia. Sulle barelle dei Falcon viaggiano bambini minuscoli e trasparenti, neonati chiusi in un’incubatrice, uomini privi di conoscenza, donne che non sono mai salite su un aereo in vita loro. I soldati volanti non si adeguano a questo mestiere per necessità e disciplina: ne sono entusiasti. «C’è per tutti una motivazione molto: forte», dice il maggiore Tortorella. «Ed è quella di avere uno scopo concreto, una missione utile, un risultato visibile. Siamo tutti piloti militari. Ma c’è una bella differenza fra l’addestramento continuo sui caccia e questo lavoro. In tempi di pace è una differenza di senso». È questa una nota costante (molto italiana, nel senso migliore) di tanti nostri reparti militari. «Di solito un reparto militare si addestra alla guerra», dice il tenente colonnello Giuseppe Gimondo, comandante del 31° Stormo. «Noi siamo un’anomalia. Il pronto impiego sanitario ci nobilita. Quando sono entrato in Aeronautica avevo timore di quando mi avrebbero ordinato di premere un grilletto. Fortuna ha voluto che finissi in un reparto dove questo problema non esiste. Mi sento profondamente pacifista, e credo lo siano tutti i militari».

Gimondo ci ha messo anche la sua passione per l’informatica. È lui che ha ideato il software con cui si gestisce l’attività dei voli. Ecco, per esempio, che un pomeriggio alle 15.15 arrivano insieme due task, due incarichi. Nella sala operativa del Boc sono di turno i marescialli Marcello Coppola e Fabio Latino. «Un Ipv da Foggia a Linate. Un altro paziente Olbia-Pisa». Ipv significa imminente pericolo di vita. Cliccano sullo schermo i nominativi degli equipaggi a disposizione. Il computer manda sms sui loro telefoni, e riceve la conferma. L’aereo di turno è un Falcon 900 Easy. La pista dell’aeroporto “Gino Lisa” di Foggia stavolta è troppo corta, il 900 è più pesante del 50. Il maggiore Michele Buccolo, prima di correre a cambiarsi, propone: «Se scaricate duemila libbre di carburante, possiamo provare. Poi ci riforniamo a Linate».

L’altra soluzione è l’aeroporto militare di Amendola, 15 chilometri da Foggia: «Dopo le 12 chiude, adesso vediamo se riescono a richiamare il personale per l’assistenza a terra». Decollo fissato alle 17, la macchina è partita. Contatti con gli aeroporti per le procedure antincendio. Preparazione dei piani di volo. Rapporti meteo da ritirare. Alle 16 arriva una terza richiesta: «Un altro Ipv Catania-Pisa». Da Olbia segnalano che per il paziente, candidato a un doppio trapianto reni-pancreas, attendere il Falcon da Linate sarebbe troppo tardi: gli organi scadono. «Sta per atterrare a Ciampino l’Airbus con il ministro degli Esteri da Belgrado. Potremmo mandare quello». Alla fine, un’altra soluzione: un elicottero da Olbia.

Intanto il Falcon 900 decolla verso l’aeroporto militare di Amendola: volo India 2244, precedenza assoluta come sempre. Trenta minuti di volo, atterraggio alle 17,30. Il maresciallo Giuseppe Caramia, assistente, ha preparato la barella. Il paziente si chiama Sergio Pignonica, “severo scompenso cardiaco refrattario a terapia”. È un uomo magrissimo, 41 anni, di mestiere portinaio. Salgono con lui il cardiologo Vincenzo De Lisi, l’infermiere Vincenzo Di Fiore. La moglie Assunta. Un’altra infermiera, che è la sorella gemella di Pignonica e si chiama Anna: «È successo tutto in un mese, l’hanno ricoverato per ischemia cerebrale, dovuta a problemi cardiaci. Non si riesce a stabilizzare, ecco la necessità del trapianto e l’urgenza del volo. Abbiamo contattato vari centri, il solo a dare la disponibilità è stato il Niguarda di Milano. Grandissimi professionisti».

Un’ora di volo fino a Linate, zona militare. I due marescialli Giuseppe Caramia ed Elio Frison si siedono a fare due chiacchiere coi passeggeri. A Linate mezz’ora di sosta: rifornimento di carburante, e di panini preparati dai colleghi. Poi via di nuovo verso Catania. Caramia distribuisce i panini e commenta: «Sapesse quanto è importante un sorriso, una battuta, una gentilezza in questi voli. Trasportiamo gente che sta male, che è agitata, che ha paura. E anche fra noi dell’equipaggio conta molto saper tenere un clima sereno. Ci facciamo certe nottate in giro…». Per i trapianti partono con l’équipe chirurgica dell’ospedale, che deve fare l’espianto. «A volte in pista ci sono tre o quattro aerei in attesa, il nostro e altri privati. Ognuno aspetta il suo organo. A volta torniamo con un cuore, e ripartiamo a prenderci un rene».

Il Falcon atterra a Catania alle 21.20: stavolta ai comandi c’è il capitano Daniele Rivalta. Alle 21.40 si decolla verso Pisa: chilometri 998, tempo previsto 1 ora e 18 minuti. La signora Maria Contarino, 47 anni, parte per un trapianto di rene e pancreas, il marito Isidoro l’accompagna: vengono da Fiumefreddo. «Mi aspettano entro le 23», dice lei. «Gli organi sono pronti. Devono solo fare il controllo di compatibilità. Se va bene, entro subito in camera operatoria. È un anno che aspetto, questa è la terza volta che ci chiamano. Due viaggi a vuoto, ma stavolta sembra che sarà quella buona». Il suo problema è un brutto diabete giovanile: «Mi ha già rovinato gli occhi, ma quelli li ho operati». Provano a scherzare, lei e il marito, perché una diabetica ha sposato un pasticciere. Alle 22.55 si atterra a Pisa, l’ambulanza è già pronta. Strette di mano, e buona fortuna. Cinque minuti, poi via verso Ciampino: «Fra mezz’ora siamo a casa. Se non arriva un’altra chiamata mentre siamo in volo».

Maschera neutra

b81170b030c10f5b3e1744e8b81810f0.jpgUn volto bianco. Né uomo né donna. Né gioia né tristezza. Inespressivo. Neutro. Inquietante quanto affascinante. Uno sguardo vuoto e un respiro spento al di là dei fori. Infiniti occhi invisibili e aria assente… ma se un volto umano vi si appoggia l’infinito diventa uno sguardo vivo e l’aria un respiro presente.

Qualche mese fa, in occasione di un corso di public speaking, intitolato L’Arte della Presenza e svolto con metodologie teatrali, al quale ho assistito per lavoro, rimasi sorpresa dalle reazioni dei partecipanti che indossavano una maschera neutra durante alcuni esercizi per riflettere sulla comunicazione non verbale, sulla gestualità, sulla postura, sui movimenti del corpo. 

Sembravano improvvisamente altre persone, quasi altre entità senza una precisa identità. Cambiava il modo di camminare e loro stessi riferivano di aver provato sensazioni strane come la difficoltà a respirare, pesantezza dei propri passi, aumento del battito cardiaco, oppure un’improvvisa sicurezza… un’emozione mai provata, chi piacevole, chi invece di disagio… alcuni addirittura avvertivano tensione in alcune parti del corpo ed acceleravano il passo per finire più in fretta l’esercizio ed altri invece si scioglievano, e una ragazza, prima piuttosto rigida e frettolosa, improvvisamente assunse un’andatura simile a un’onda, che faceva pensare a una sinusoide morbida, lenta ed elegante…

In una pausa la curiosità mi fece prendere in mano quella maschera. La osservai a lungo… guardai le labbra chiuse, al di là degli occhi assenti, il naso come quello di una statua greca… e per la prima volta nella mia vita l’ho indossata davanti a uno specchio… 

La prima sensazione fu di calore al viso coperto da quello strato che nel mio caso era di plastica. La stessa sensazione fisica che si prova da piccoli quando si indossano buffe maschere di carnevale, più o meno… Poi però guardai lo specchio… ma chi era quella che vedevo? Cos’era? Certo, è logico, ero io, ma andando oltre l’evidenza avvertii dell’altro in quell’immagine. Una sensazione ovattata, un fascino inquietante che mi tenne per qualche minuto inchiodata davanti a quello specchio ad osservare i miei occhi che non sembravano più i miei in quello strano volto tutto bianco, i miei capelli che facevano da cornice a quel viso né triste né felice, né maschile né femminile. Neutro. Immobile. Sentivo più forte e rumoroso il respiro e anche il cuore aumentò il suo ritmo. 

Forse per ansia. L’immaginario timore di una perdita di identità, di certezze, di sicurezze. Il timore di un annullamento, di diventare nulla, un pupazzo inanimato… un immenso senso di prigionia e di solitudine.

O forse per emozione. L’immaginaria euforia di vedermi potenziale personaggio nuovo e di intravedere, al di là di quei fori e al di là dei miei occhi, una porta verso nuove vite. Non più il nulla o il solito, ma altro, tanto altro e altrove. Mille identità, mille luoghi e mille tempi… mille io, tu, lei, lui, noi, voi, loro… un immenso senso di libertà e condivisione.

Passai pochi minuti a fissarmi davanti a quello specchio… immobile come una bambola inanimata, ma ho avvertito il passare di una e mille vite, le opportunità, le scelte e… e dopo quella specie di incredibile viaggio togliermi la maschera e rivedere il mio viso riflesso nello specchio mi ha quasi stupita per un istante, come nel primo istante in cui mi sono vista con indosso quella maschera…

Raffica di novità in edicola!

Negli ultimi giorni ho pubblicato una mitragliata di nuovi articoli su Comunitàzione.it. Gli argomenti? Comunicazione responsabile, un nuovo giornale, un’azienda in scena, un esempio di marketing virale e un’intervista che mi piace un sacco.

 

420820505c25e63bcf04325361f97fe1.jpgCome promesso, qua nella mia edicola c’è libero accesso alla lettura di quanto esposto. Metto tutto nell’espositore e potete servirvi… con un clic.

 

Un Bazar di domande a Eugenia Romanelli Passeggiando in un immaginario mercato che espone i prodotti comunicativi del brand Bazar, chiacchieriamo con la sua fondatrice e facciamo shopping di cultura creativa. Colori, rumori, odori, sapori e valori fra bancarelle multimodali che offrono ai passanti la possibilità di osservare e sperimentare, creare e ricreare, esporre e scambiare modi di comunicare.

Web marketing Air Dolomiti. Un decollo! Un successo oltre le previsioni del concorso fatto rullare online in primavera e decollato con un marketing virale in cabrata. La campagna di web marketing fa parte degli importanti investimenti per le attività online di Air Dolomiti che hanno fatto registrare un incremento dei passeggeri del 13% già nei primi 5 mesi del 2007.

L’azienda comunicherà mettendosi in scena? Esempi anche molto recenti (spettacolo per la promozione della nuova Fiat 500), forse sono il segno che le aziende hanno sempre più voglia di comunicare con clienti e dipendenti mettendosi in scena. Ricordiamo il RASpettacolo, un esempio meno recente, ma molto significativo, di comunicazione aziendale con forte valenza formativa messo in atto con successo da Te.D.-Teatro d’Impresa®.

NC – Il Giornale della Nuova Comunicazione   Un nuovo mensile per capire e interpretare l’evoluzione delle nuove modalità di comunicazione. Una visione d’insieme sulle innovazioni, sulle discipline e sui mezzi che caratterizzano il processo di revisione del sistema comunicazione.

Forum Comunicazione Responsabile – Premio Aretê 2007 Quarta edizione del Premio per sensibilizzare l’opinione pubblica a valorizzare i soggetti che comunicano in maniera responsabile. Con il patrocinio del Ministero delle Comunicazioni il Forum e la premiazione si terranno a Roma il 5 novembre.

Deviazione

9b3c0d83c363b7ae205926365aa21de2.jpgMani sul volante. Semaforo rosso. Cerchio rosso. Freno. Mi fermo. La mente, appena evasa dalle sbarre di scartoffie ingarbugliate nella valigetta che mi spia dal sedile di fianco, riesce a sfuggire anche dalle manette degli spot radiofonici e, in quell’attesa rossa e noiosa, si libera nel cerchio dei ricordi.

Vedo chiara la mia mano molto piccola, aperta e abbandonata nel risveglio di un mattino, sporgere da strati di coperte fatte a mano. Dalla finestra socchiusa attraversa la luce l’odore agricolo dell’aria collinare e la mia sveglia pennuta canta dividendosi il silenzio con l’abbaiare del cane.

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Nel palmo il mio primo occhio aperto scorge un bottone tondo, cerchietto rosso bombato decorato di pallini neri. Dal suo corpo sporgono piccoli filamenti sottilissimi. È scucito. Lo osservo ancora. Anche il mio pallone ha gli stessi colori, la polpa del cocomero coi semi, le fette del salame col pepe e il sugo di pomodoro con le olive nere. Ma lui è così piccolo e leggero che il suo peso è un solletico. Poi i fili fragili accennano tenui movimenti e la calotta si divide al centro, aprendosi in volo e portandosi via tutto, fuori, nell’aria erbosa.

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Forse era un’astronave di marziani piccolissimi. La cerco per tutta la mattina intorno alla casa e scopro che il prato è una base spaziale affollata di bottoni volanti.

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L’abbaiare del mio cane si trasforma nel ringhio dei clacson alle spalle. Le mani sul volante nervoso, interrotte nel ricordo, accostano al lato della realtà.

43fcc140cec415225396c840ebf864f9.jpgOsservo il fiume obbligatorio e turbinoso scorrere avanti verso la diga del caos.

Snodo la cravatta che, con la giacca e la ventiquattrore, finisce sul sedile posteriore. Guido per un tratto nella corrente rumorosa, poi prendo un affluente di periferia ed un ruscello verso la collina.

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Il prato delle coccinelle è sempre là, intorno alle vecchie mura, e il vento che lo pettina mi fa respirare.

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Con questo racconto, che qui sul blog ho colorato di illustrazioni, ho partecipato nel 2003 al Premio letterario Il Molinello (Rapolano Terme – SI) ed è stato inserito nella relativa Antologia Voci dell’anima.

Pagine ferroviarie

dc758fe9a0a5bf11a58e4044c9815830.jpgIl progresso è fatto di conquiste ma anche di sconfitte, di successi ma anche di errori. Riflettere sulle dinamiche, sui motivi e sulle conseguenze degli errori e delle sconfitte è sicuramente utile al miglioramento futuro.

Segnalo un libro particolare realizzato a cura di Stefano Patelli, mio fratello.

Si intitola I principali incidenti ferroviari in Italia e nel Mondo dal 1859 ai giorni nostriCronologia storica dei più importanti e particolari Incidenti Ferroviari accaduti nella storia delle Ferrovie di tutto il Mondo – Luoghi – Date – Dinamiche – Rotabili – Cause – Conseguenze –  2a edizione 2007.

e4930e77eadc4b7d07d01596ab0d5d7f.jpgRiporto di seguito il testo della Premessa scritta dall’autore.

Questo testo tratta cronologicamente la maggioranza degli incidenti ed attentati che hanno coinvolto treni, infrastrutture e quant’altro di adiacente, accaduti da quando esistono le linee ferroviarie sull’intero pianeta. 

Esso è frutto di una ricerca effettuata su quanto successo in Italia/Europa (Media, Quotidiani, Agenzie d’Informazione, Archivi FS, Quotidiani d’epoca, ecc.) e, per quanto riguarda gli eventi extra europei, è frutto anche di un’opera di traduzione di alcuni testi specifici in materia, difficilmente reperibili sul mercato.

Per ogni evento, di norma, vi sono indicati la data (per quanto possibile precisa), il luogo, la linea ferroviaria interessata, la dinamica, i rotabili coinvolti (solo per i casi accaduti in Italia), le cause e le conseguenze.

Il contenuto di questo testo non intende contrastare quanto emerso da inchieste attivate a seguito di particolari e gravi avvenimenti, ma si limita a descrivere solo la realtà dei fatti come gli stessi sono stati resi pubblici.

Nel caso di inchieste ancora in corso, il testo ne prevede la relativa notizia.

I mezzi coinvolti in incidenti accaduti nel nostro Paese, sono rilevabili anche dal testo relativo a “I Rotabili delle FS dalle origini al 2000” disponibile anch’esso, ma aggiornato al 2002 .

(L’intero lavoro è dedicato all’Ing. Franco Patelli)

3b74f22fd64b7f3e59763a75a7c7f1eb.jpgUno sguardo alle primissime pagine cliccando su Copertina-Indice-Premessa.doc

… e chi fosse interessato può contattare direttamente l’autore scrivendo a s.patelli@rfi.it.

 

Binari genetici

Franco non aveva mai volato in vita sua, ma di chilometri ne aveva fatti a migliaia. Certo non sfidando la forza di gravità. Semmai quella centrifuga, nelle curve, ma saldamente incollato a binari d’acciaio. Veloce. Certo non come un aereo. Come un treno.

0d066a649fcd712737db212674cb298c.jpgIl tempo aveva trasformato quei binari. Suo padre Romolo li aveva faticosamente percorsi tutto sporco di carbone, attorcigliati come una spirale di DNA, e parallelamente Franco li aveva ereditati. Il progresso li ha via via distesi e resi sempre più veloci, anche grazie a lui. Era un ingegnere che ha dedicato tutta la sua vita lavorativa alle Ferrovie, ed era anche “pilota di treni” e quindi sapeva condurli sia prendendo decisioni importanti dal suo ufficio che materialmente ai comandi di una locomotiva.  Due binari che viaggiavano paralleli.

Trasmise quel codice parallelo anche a suo figlio Stefano che presto iniziò a sfrecciare su binari509f6182399c1f0b8deeca43a0ca47a9.jpg d’acciaio sempre più moderni e veloci e lo sta facendo ancora.

Quando Franco seppe che sarebbe dovuto partire prima del previsto per un viaggio mai fatto prima, pensò di lasciare un disegno. L’occasione si presentò quando il suo nipotino Michele gli chiese di farlo. Ancora la partenza non era imminente, c’era tempo e c’erano le forze per disegnare. E allora quella volta con il pennarello si staccò dai binari, vinse la forza di gravità e disegnò un aereo.

Nel tempo seguente quel disegno ispirò colori e scarabocchi al piccolo Michele. Forse pensava che il nonno gli avesse costruito una macchina per volare e lui volava colorando la fusoliera, le ali, l’aria circostante… Poi un altro giorno Michele chiese al nonno di fargli un altro disegno. Ma non c’era più tempo. Non c’era più forza neppure per fare un disegno a un bambino.

Dopo due giorni Franco volò via. Era il 1° Febbraio 1994 e partì per quel viaggio mai fatto prima viaggiando su binari sconosciuti. Altrove.

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A sua figlia Franco ha trasmesso i suoi binari in maniera diversa e lei se ne sente avvolta come in una spirale di DNA. Lei li ha trasformati in righe su cui scrivere correndo con la sua penna. Come se fosse un treno.

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Con le parole corre veloce. Ne mette in fila come vagoni per chilometri. A migliaia. Con i pensieri riesce anche a volare ed anche nella realtà ha volato, vincendo la forza di gravità, e ogni volta che sente il rumore, il fischio o l’odore di un treno prova una sensazione difficile da spiegare… la potenza, una direzione, una guida, una sicurezza, e insieme tanta nostalgia di ciò che non è più e il tenero ricordo di quando da bambina vide per la prima volta il fumo bianco di una locomotiva a vapore e chiese a suo padre: «Babbo, ma fa il fumo bianco quando ci mettono dentro il carbone bianco?».

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Franco era mio padre e a lui è dedicata ogni parola, ogni virgola, ogni spazio, ogni immagine, ogni silenzio e ogni treno in transito della categoria “Binari” di questo blog.

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Gli Amici dell’Aviazione

Grazie al mio blog ho conosciuto Clipper, l’Associazione Italiana Amici dell’Aviazione, che mi ha fatto visita fra queste pagine e mi ha lasciato un invito per visitare il suo sito www.airclipper.com, dove fra i numerosi link ha segnalato anche quello della categoria “Volo” di Cristalli di carbonio… grazie! J

Ho il piacere di contraccambiare la gentilezza dedicando a Clipper un intero post per raccontare in sintesi ciò che si può approfondire molto di più visitando il sito.

425cd0ecc7bf31aabad0fb6aeb3b2383.jpgClipper è nata in territorio lombardo nel 1995 da un gruppo di appassionati che condividevano l’interesse per lo sviluppo dell’Aeroporto di Malpensa. Iniziarono così le attività dell’Associazione ritrovandosi lungo le reti di recinzione dei principali aeroporti italiani per scattare foto con particolare interesse per l’aeronautica commerciale, sia per esprimersi in maniera spotteristica al fine di crearsi delle collezioni private, che per scambio e divulgazione.

Oltre all’attività fotografica si è sviluppata l’organizzazione di eventi come convegni, raduni e anche visite ad aerei, aeroporti “interessanti” e aziende aeronautiche con l’obiettivo di riunire gli appassionati dell’aviazione commerciale e di divulgare la cultura del volo in maniera semplice e graduale e quindi accessibile a tutti gli interessati dal punto di vista hobbistico, fotografico e anche tecnico.

Gli aderenti all’Associazione possono inviare foto da pubblicare nella sezione Foto Album suddivise sia per la categoria di velivolo che per il nominativo del fotografo, ma anche articoli e racconti di volo da pubblicare sul Magazine.

La sezione Report attività è ricchissima di eventi dalla nascita di Clipper fino ad oggi e le novità si possono consultare nelle sezioni Novità, Air News e Avvisi. La sezione Schede Aerei raccoglie schede monografiche sugli aerei commerciali con descrizione storica, foto, disegni e informazioni utili.

Non solo volo reale su Clipper ma anche volo virtuale e aeromodellismo. Cliccando QUI possiamo vedere sorprendenti plastici di aeroporti… da non perdere!

Uno sguardo in edicola

bf0c7d2d1b272be893d02c889365ceb9.jpgPrimo giorno di luglio… caldo… sole… l’estate avanza ed è pure domenica, ma l’edicola di Riccarda non chiude mai ed è appena uscito il web magazine Bazar di luglio-agosto 2007 con un editoriale e tante rubriche tutte da leggere.

Vi presento le mie rubriche estive di “Architetture & Design: forme che si esprimono” e “Corsi: possibilità senza margini”:

 

ArcheoRevolution Festeggiare architettura e legalità surfando sul design dei codici a barre tra forme e spazi futuribili.

Any question? Risposte in corso per un’estate ricca di domande.