Legame azzurro

8326a101e1f5adce5ab7e2b54f48f42b.jpgEra morbido il tunnel in cui stavo rotolando verso una meta sconosciuta. Non sapevo che fosse anche buio perché non conoscevo ancora l’esistenza della luce e nemmeno che un giorno avrei avuto gli occhi. Fin dalla prima scintilla sublime ho avvertito affollarsi le giovani cellule che si disponevano, smistandosi ordinatamente, a formare il mio corpo abbozzato.

In quei magnifici giorni ero sommerso in un liquido caldo, sospeso in un umido dondolio, e il nido che avevo raggiunto era legato a me ed io a lui da un dono di vita che mi innamorava di quella linfa preziosa che giungeva portandomi verso la completezza e la luce.

L’oscurità non spaventava i miei occhi primordiali e chiusi, mentre adoravo il fluido sciabordio intorno a me, i suoni amniotici e musicali che udivo e la carezza delle pareti protettrici. Il mio cuore correva con piccoli battiti vivaci e molte volte mi addormentavo cullato dal suono costante di un cuore più grande, lento, sicuro.

Non ricordo quanto tempo ho trascorso in quella culla sempre più avvolgente, tesa e trasparente. Man mano che mi sentivo crescere, gli occhi socchiusi mi rivelavano una penombra rosa, presagio di dolcezza, finché un giorno abbandonai il massaggio delle acque e mi inondò la luce. Sorprendente. Accecante. Poi lieve e accogliente al contatto con la pelle affaticata della mia insostituibile fonte vitale.

Scoprii l’alternarsi del giorno e della notte, del sonno e della veglia, delle stagioni calde e fredde, e il variare d’intensità della luce nell’arco delle ore. Immagini inedite in successione di gioco e cantilena meravigliavano i miei occhi aperti e gli altri sensi scoprivano un profumo esclusivo, il velluto della pelle, un gusto gonfio e goloso e la melodia di una voce unica al mondo che, lei sola, riusciva a farmi dimenticare il liquido abbraccio che avevo abbandonato.

Quell’acqua paradisiaca mi mancava quando la sinfonia della voce taceva, ma ben presto ritrovai il mio elemento amico. Fluido, caldo, familiarmente viscido e, con mia sorpresa, saponoso con giochi di bolle delicate. Lo incontravo spesso e lo muovevo con piccole onde che mi ricordavano il ritmo del grande cuore.

Imparai presto che esisteva un altro amico immenso, animato da un moto proprio, insistente, che cullava all’infinito la vita al suo interno. Conobbi parte dei suoi confini e li manipolai creando potenti castelli seccati dal vento, mentre il sole mi coloriva la pelle e fortificava le ossa. I miei piedi correvano sulla sabbia del litorale e rallentavano sui sassi tondi che crepitavano di gioia al contatto con la carezza strisciante dell’acqua che li sommergeva d’un tratto per lasciarli, subito dopo, emergere lucidi da una schiumetta svanente.

Un giorno i miei piedi ancora piccoli e morbidi, dal pavimento della casa illuminato da nastri solari che filtravano attraverso le persiane di salsedine, mossero i loro passi sui granelli di sabbia, sui sassi bollenti, su quelli umidi e su quelli bagnati immersi nelle prime ciglia d’azzurro. Lo incontrai così il mio grande amico. Ridevo e scalciavo, pazzo fra ricordi e sorprese, mentre lui mi accoglieva con onde affettuose.

Il suo massaggio, il sapore sulle labbra, i capelli stopposi, la pelle abbronzata e opaca di sale secco, mi accompagnarono negli anni più belli della mia vita. Mio padre, un giorno, mentre osservavo quel compagno fedele devastarsi i bordi nebulizzandosi di iodio, si avvicinò a me. Le reti del suo peschereccio riposavano annusando il proprio odore. Mi parlò delle maree inventate dalla luna e dal sole, delle rotte di navigazione fra i fantasiosi arcipelaghi delle isole immerse. Mi raccontò delle scogliere continuamente modellate da quel volubile artista, frastagliato scultore di faraglioni, penisole e promontori, estroso pittore di baie e di golfi, di insenature e di stretti che, sulla sua tavolozza, rompeva onde d’azzurro da spruzzare di bianco.

La mia mente, alimentata dal fosforo e dai racconti di pesca, conosceva a poco a poco la vita sommersa e ricordo che ringraziavo tutte le creature che mi permettevano di crescere sacrificandosi per me. Rispondevo al sorriso dei delfini, mi inteneriva la tenuità del plancton indifeso e la celeste trasparenza delle meduse. Mi incuriosiva il mimetismo delle sogliole, mi divertiva l’ondeggiare delle alghe e degli anemoni e mi sorprendeva la bellezza dei ventagli naturali che rinvenivo sulla battigia.

Inventavo avventure di molluschi, battaglie di cozze, danze di calamari e totani, cortei di granchi e gamberetti in uniforme corazzata incrociare parate di ippocampi, crostacei pirati predare i tesori delle ostriche e fantasticavo su un esercito di prodi polipi dai tentacoli invadenti che si esibivano in sinuose piroette, gelosi dei numeri circensi dei pesci pagliaccio.

Se non fosse stato per la necessità del respiro sarei vissuto per sempre laggiù fra le correnti, sui fondali e poi su, in trionfo sulle creste e cullato nei cavi delle onde come i delfini gioiosi, e poi di nuovo giù fin negli abissi dove c’è vita anche nel freddo e nella notte. L’oscurità del blu abissale non mi impauriva. Ricordava il mio buio primordiale e confidavo in un legame azzurro, misterioso ma affascinante.

A quei tempi sognavo di costruire un castello di scogli con finestre di madreperla, la porta di corallo, le torri di conchiglie e una bandiera di alghe al vento. La regina di quel castello aveva nella voce una melodia unica al mondo, sedeva su un trono di faraglione potente di flutti e sfoggiava una corona di perle e un mantello di spruzzi iridescenti. Il re era il guardiano del faro più grande e brillante di tutti gli oceani del mondo e, quasi quanto adorava la regina, amava la vita degli uomini di mare, così la proteggeva avvisandoli del pericolo.

I miei piedi giovani divennero più grandi e la loro pelle più spessa. Erano nel pieno della forza e, con l’energia dei progetti, muovevano passi desiderosi sulla costa che incontrava le onde nel semicerchio irregolare del golfo. Poggiati fermamente sul legno ruvido del peschereccio, mi videro apprendere le tecniche di pesca che mio padre aveva ereditato dal nonno. Innumerevoli volte corsero incontro a una rete svuotata del suo guizzante bottino.

Sicuri e decisi sullo scafo ondeggiante, conobbero a fondo quel lunatico compagno. Provarono l’allegria delle spume pelagiche, il brio delle increspature irregolari e ventose, la calma piatta, la cantilena dell’onda lunga e la superiorità della tempesta.

Mi resi conto di amarlo al di là della fantasia e della bellezza, anche se talvolta sembrava essere un nemico minaccioso che mi sfidava a duello come quando, di notte, il suo frastuono impetuoso veniva trasportato in cielo dal vento teso. Quando mi coglieva così di sorpresa, io stavo al suo gioco e, con la certezza che lui non mi avrebbe tradito, lo lasciavo sfogare mettendolo alla prova per vedere se ricambiava il mio amore. E infatti non mentiva. Le sue burrasche non hanno mai scalfito il mio cuore. Solo il mio viso è stato disegnato dalla tempesta, ma lui non ha colpa. È stato l’uragano del tempo.

I miei piedi ora sono grandi, induriti da calli faticosi. La pelle dei calcagni è spaccata in tanti solchi bianchi e le dita deformi trovano accoglienza e riposo sulla sabbia ancora tiepida.

Come ogni sera d’estate vengo qui, mi siedo sulla spiaggia coi calzoni arrotolati a metà polpaccio e la canottiera bianca che spicca sulla pelle scura. Stavolta non ci sono gabbiani in cerca di compagnia e, in mancanza dei suoni rauchi e stridenti che emettono mentre volteggiano sfruttando le correnti d’aria, solo il suono dell’acqua riempie il silenzio. Volgo lo sguardo verso il faro acceso sul promontorio. Lampeggia e pare che mi saluti. Osservo il mio compagno, il grande mare di fronte a me. È calmo e mio nipote, sul peschereccio, stanotte sarà in buone mani.

La sabbia sotto le dita si raffredda e le piccole onde giocherellone si infrangono sulla battigia nel solito scambio musicale con i sassi che si lasciano arrotondare. La terra intanto restituisce la brezza serale all’acqua tranquilla e ancora tiepida dopo una giornata rovente.

Ti osservo ancora, marea stupenda. Il sole del tramonto ti ha colorato di corallo e, innamorato anch’esso di te, si è immerso nell’altra tua parte. Un leggero alito d’aria soffia sui miei capelli bianchi e mi distendo, abbandonato e immobile come un relitto sui fondali. Un’insolita serenità pervade la mia mente, vivace come non lo è più il corpo che, come un’ancora, gravita a terra. Le membra in lotta con il tempo le avverto quasi intorpidite e penso a te, amico blu, che sei antico più di me e non hai riposo.

Poi un respiro lento e un battito calmo e i ricordi si affollano di visioni e sensazioni. L’antica penombra rosa, le onde liquide e tonde, il bagliore improvviso della vita, quell’indimenticabile sinfonia materna, il castello fantastico della regina dei mari, il faro del re dei pescatori.

Un battito pigro e un respiro fragile.

Vedo il mare, antico e primo custode della vita, che dirige la danza classica delle meduse e i balletti dei cavallucci, le esibizioni dei polipi e il tango delle aragoste. Nel teatro subacqueo la colonna sonora di un’orchestra d’onde accompagna la rappresentazione mentre una scenografia di pesci variopinti e creature multicolori fa da sfondo dietro al sipario blu.

Un respiro lieve e un battito debole.

Un peschereccio di perla con reti di corallo piene di guizzi brillanti, le onde lunghe languide d’amore, le tempeste ostacolate dagli scogli, le palette dei bimbi, le notti di fatica e i giorni di sale, arcipelaghi di lampare orlano di luci i merletti frastagliati al confine fra la terra e il mare.

Un battito spento e un respiro stanco.

In pochi secondi si alternano il candore appisolato dell’inverno, la delicatezza infantile della primavera, la gioiosa esuberanza dell’estate, la splendida senilità dell’autunno, e si combinano con la trasparenza dell’alba, la passione focosa del mezzogiorno, il saluto arancione del tramonto e le stelle accese della mezzanotte.

Le immagini continuano a susseguirsi rapide nella mente e non serve aprire le palpebre verso il cielo che si fa notturno su di me.

Uno degli ultimi flebili respiri. Uno dei pochi gracili battiti rimasti.

Sento che devo partire. Chissà se alla fine del mio viaggio ti ritroverò così bello come sei, mare che mi vegli in quest’istante che si estingue. Mi addormenterò respirando questa speranza, cullato dal battito sempre più lento del mio cuore. E se dove andrò non ci sarai, ricordati di me.

Le onde delicate di quella sera si ruppero morbidamente sulla riva con un ritmo sempre più rado. Per pochi attimi i sassi tacquero. Le conchiglie attesero…

La prima nuova onda giunse in ritardo, dopo quell’intervallo sospeso, e guidò la ripresa del moto perpetuo di quelle che la seguivano. Il coro dei sassi cantò di nuovo nel silenzio della spiaggia. I colori di un secchiello, dimenticato fra impronte allegre, erano avvolti di penombra lunare.

Un altro leggero alito di brezza sfiorò un ciuffo candido e salino, le palpebre chiuse e un sorriso di pace.

Le lampare, come perle luminose, proseguirono il disegno delle stelle.

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Questo mio racconto ha ricevuto una menzione d’onore nell’8° Concorso di Letteratura Giovanile “Zaccaria Negroni” promosso nel 1999 dal Gruppo di Servizio per la Letteratura Giovanile (Roma). È stato pubblicato su “La Vetrina di Pagine Giovani”, supplemento al n° 4/1999 di “Pagine Giovani”, organo ufficiale del Gruppo.