Aspetto l’alba. Questa notte è lunga di pensieri e bianca d’insonnia buia senza luna. Le altre dormono tutte, ma non mi rilassa neanche il silenzio perché la padrona russa a sbuffo come sempre nel suo letto esagerato.

Non si sta male qui nel portagioie, però manca la perla più anziana, la più grossa e solitaria incastonata nel ciondolo che la padrona ha imprigionato nella cassaforte. Facevamo belle chiacchierate lei ed io, specialmente nelle notti sveglie di ricordi. Parlava  saggia, col potere di farmi sentire staccata dal mio filo, libera di immaginare fantasie.

Appena giunta qui, orfana e sola, mi ritrovai incatenata ad altre come me e per fortuna c’era lei, la più grande e pregiata. Avevo perduto la mia ostrica, madre adottiva e culla amica, senza immaginare che fine avesse fatto. Fu una separazione improvvisa e orribile, così i primi giorni nel portagioie furono tristissimi per me, poi la perla anziana se ne accorse perché aveva già vissuto quell’esperienza e si offrì di starmi vicina in amicizia.

Una notte mi rivelò la storia della prima perla nata all’inizio della luce. Un guscio, che ne era custode, si schiuse e la regalò al mondo che nasceva. Lei si specchiò in un cristallo di sale e donò alla natura una rifrazione di colori che esplodevano dalla luce bianca. Tenne per sé solo un po’ di blu e nel guscio con le valve aperte a ventaglio si sciolse in golfi di mare azzurro, così azzurro da sfumare il cielo di celeste, anche sulle terre dove non si scorge il mare e il colore dell’aria lo fa ricordare.

La prima perla blu si estinse così, creando gli oceani, ma la natura volle contraccambiare il dono dei colori ed ordinò al mare di cullare i gusci, ai gusci di proteggere le ostriche perché creassero nuove perle bianche, e alla luce di baciarle d’iridescenza. Quei piccoli capricci del mare divennero al mondo le uniche gemme preziose create da organismi viventi.

Ascoltavo rapita le sue parole ed anche la perla anziana ascoltò con attenzione il mio racconto di quando, diversi anni fa, ero una minuscola particella di sabbia sul fondo marino. Gironzolavo nel mare a lungo e a largo ballando con le correnti delle onde che mi mescolavano a miliardi di gemelle finché un’ondata più potente mi sollevò in una nuvola e dopo il turbinio d’acqua torbida e bollicine mi ritrovai di fronte ad una strana casa rotondeggiante. Le mura erano in stile rustico, come pietra grezza e ruvida. La porta si aprì e fui spinta dentro da un risucchio liquido.

L’arredamento era stupendo. Sulle pareti c’erano archi di madreperla e fui fatta accomodare delicatamente su un divano morbidissimo e avvolgente. Un mantello protettivo mi coprì e la padrona di casa, che io credevo fosse un tipo un po’ chiuso, si rivelò invece una grande esperta in ospitalità mettendomi a mio agio con massaggi fluidi, carezze preziose a strati luminosi. La nostra fu subito un’amicizia profonda, perfetta e tonda, radicata sul fondale roccioso sotto metri e metri di mare. Durò quasi dieci anni e quel rapporto così stretto e forte da sfidare gli abissi mi arricchì pian piano di abbracci lucenti, sferici e concentrici. Ero ricoperta di bellissima purezza, accolta come sempre nel divano dentro al guscio, ma improvvisamente un terremoto tagliente ci staccò dalla roccia e io fui rapita.

La mia amica ostrica – scoprii in seguito – finì in un mare di guai e pioggia di limone, risucchiata in un gorgo bavoso e ingordo. La penso spesso con nostalgia raggomitolata qui nel portagioie, perché il suo ricordo non si è estinto, ma è immerso qui dentro di me.

Io invece sono immersa nel lusso, in troppo lusso, troppo oro, troppe parole eleganti di seta svolazzanti su ventate di profumo pesante. Due governanti impettite mi lucidano tutte le settimane e la mia padrona mi porta fuori spesso e sempre il sabato pomeriggio.

Ho tante sorelle, un’intera serie, tutte infilate con me nel solito filo inerte. Stiamo insieme ed unite ovunque, sia qui che al collo della padrona, ma io soffro lo stesso di solitudine.

La perla anziana, per fortuna, mi ciondolava accanto quando, per la prima volta, fui costretta ad assistere impotente ad un’orrida strage di ostriche da parte della mia padrona. Non si è mai pentita di quel crimine perché troppo spesso si macchia di nuove cruente scorpacciate aspirando con labbra avide i piccoli cadaveri indifesi inondati di limone acido. Ogni volta che succede sono presente. È una tortura terribile per me, ma lei si passa la lingua sulle labbra prima di affogare tutto con sorsate di champagne e infine fa buttare i resti madreperlacei nella spazzatura.

È stata la parte avida e disumana degli umani ad interrompere l’amicizia rotonda e mollusca con la mia ostrica, adesso ne sono certa, e forse è stata proprio la mia padrona a divorarsela.

Lei era così libera, non da allevamento e non da ristorante. Era libera. E chissà quante altre amicizie umide, nate nel tempo e nel silenzio sommerso, sono state distrutte per rubarne i frutti preziosi.

La mia padrona ha tante amiche, ossigenate, liftate, dentierate, tutte dorate e puntellate, poi ha un amico cane col pelo lussuoso guinzagliato col collare placcato, un obeso amico felino ozioso col passo sinuoso ed amici pennuti ergastolani condannati alla non libertà di volo fra sbarre lucenti. Vorrebbe tanto adottare un amico boa da mostrare alle amiche vipere durante i salotti striscianti fra pettegolezzi e tè, pasticcini e frasi osé, il bridge ed il caffè e le sorsate alticce dopo lo shopping di pellicce con collane di salsicce, e prima del trattamento antirughe con la crema di tartarughe.

Ostrica amica mia, ti penso sempre. Generosa hai regalato alla padrona una perla d’amica, ma sei stata tradita e lei, ingrata, t’ha uccisa. Solo il ricordo di noi mi darà la forza di restare qui nella mia ricca prigione e questa notte, briciola di tempo del mio lunghissimo destino, sveglia aspetto l’alba.